L’economia è la faticosa elaborazione dell’ovvio, recita un detto. Un giudizio ingeneroso; non solo perché non corrisponde alla realtà, ma anche perché pure ciò che sembra scontato può originare considerazioni non banali.

Prendiamo, ad esempio, la teoria delle scelte del consumatore. Essa assume che ogni individuo ha gusti diversi che determinano, insieme al denaro a disposizione e ai prezzi dei beni, i suoi acquisti. Supponiamo che una persona consideri due cibi: il salame e la mortadella. Dato il suo bilancio, in generale l’individuo comprerà un po’ di entrambi, magari in quantità diverse.

Se poi il prezzo della mortadella sale rispetto a quello del salame, quella persona non smetterà di acquistarla: ne prenderà un po’ meno. Le preferenze e scelte, quindi, non sono mai estreme. Esiste insomma sempre un prezzo a cui, per esempio, un consumatore non comprerà solo o soprattutto il suo cibo preferito (che potrebbe venirgli a noia), ma opterà per un bilanciamento fra diversi prodotti.

A questo approccio corrisponde un più ampio messaggio che in questo tempo appare sempre meno scontato: un compromesso è sempre possibile, e per quanto si possa preferire qualcosa, non lo si preferisce indefinitamente, e non lo si sceglierà a qualsiasi costo.

Preferenze lessicografiche

Il discorso pubblico degli ultimi anni sempre più si conforma, invece, a preferenze individuali e collettive di un tipo estremo: le preferenze lessicografiche. Una persona con questi gusti ha una gerarchia che assomiglia a quella del vocabolario, dove non troviamo una parola che inizia con la b prima di aver passato tutte le parole che iniziano con la a, e non incontriamo termini che iniziano per ad finché non siano finite quelli che iniziano per ab e poi ac, e così via.

Con queste preferenze, se la persona predilige la mortadella al salame, non ci sarà alcun prezzo al quale ella sostituirà l’una con l’altro, e spenderà il suo denaro solo nella prima. Invertendo, l’avversione al salame è tale che l’individuo non lo comprerebbe mai, per quanto possa essere più economico della mortadella.

Come si traduce questo approccio al dibattito e alle scelte politiche? L’economista di Yale Gerard Padro i Miquel, per esempio, interpreta le strategie di ricerca del consenso nelle autocrazie post-coloniali in Africa in un modo che ricorda le preferenze lessicografiche.

L’autocrate di turno è espressione di un particolare gruppo etnico che lo sostiene, e tuttavia spesso riduce anche i membri della propria etnia in condizioni di estrema povertà. Ciononostante, conserva il consenso sotto la minaccia che perdere il potere significherebbe passarlo all’etnia avversa: qualcosa da evitare, appunto, a ogni costo.

Un nemico da rifuggire

La propaganda dei dittatori del XX secolo è simile nell’individuazione di un nemico o un male da rifuggire a tutti i costi: gli ebrei, il capitale, i dissidenti nemici della nazione, e così via. Una narrazione ripresa dalla destra demagogica attuale, magari con figure maligne diverse: le élite internazionali, gli immigrati, la lobby Lgbt, i magistrati. La visione dicotomica e gerarchica della realtà («prima gli italiani», «America first») ha una forte presa, e di fronte al rischio di “vittoria” del nemico assoluto, si è disposti ad accettare politiche anche svantaggiose per sé.

È anche così che le destre, per loro storia e natura vicine alle classi più ricche (con il sostegno ai monopoli, tolleranza dell’evasione fiscale, precarizzazione del lavoro, tagli alla spesa sociale, avversione alle minoranze), raccolgono il consenso anche delle categorie più fragili.

Se queste tendenze fossero circoscritte ai cosiddetti “populisti”, e le forze politiche e i governi più tradizionali e “responsabili” potessero credibilmente rivendicare un modo diverso di affrontare la realtà, forse non sarebbe così difficile contenere l’onda di estremismo e visione conflittuale del mondo delle destre in crescita. Purtroppo, invece, anche i governi e l’opinione pubblica liberal-democratici sono stati più volte guidati dalla logica del nemico totale da combattere a qualsiasi prezzo.

Il “male assoluto”

La “borghesia” italiana del primo Dopoguerra si affidò a Benito Mussolini pur di sopire sul nascere i movimenti e le rivendicazioni di contadini e operai. Molti nobili e maggiorenti britannici videro in Adolf Hitler una possibile difesa da quegli stessi movimenti.

La reciproca caratterizzazione delle due superpotenze del secondo Dopoguerra come mali assoluti ha consentito, da una parte, al regime sovietico di commettere alcuni dei più terribili crimini della storia. E ha portato gli Stati Uniti a imbarcarsi in guerre lunghe e disastrose, e la loro opinione pubblica ad accettare qualsiasi alleanza giustificata dall’opposizione all’Unione sovietica, come quella coi mujahiddin afghani negli anni Ottanta o con sanguinari autocrati in America Latina, come un costo (umano, morale, economico) che valeva la pena di sostenere.

La fobia estrema per un comunismo morto da tempo ha portato i paesi occidentali a tollerare e dare credito a chiunque, in Russia e in Europa orientale, fosse disposto a una transizione al mercato – da Boris Eltsin a Vladimir Putin (finché non è anche lui diventato un nemico), a tanti altri anche se più o meno apertamente ostili (da destra) alla liberal-democrazia.

L’opposizione al nuovo nemico del 21mo secolo, il mondo islamico, ha contribuito a far passare quasi sotto silenzio, nel 2001 e dopo, l’alleanza almeno tacita coi signori della droga in Afghanistan contro i nuovi avversari una tempo amici, i Talebani. E a una marea di eroina a buon mercato disponibile ovunque.

Ed è difficile non pensare che l’attuale incapacità di fermare Israele, e di andare oltre le parole tanto indignate quanto generiche e stanche, non derivi anche dalla distorsione “lessicografica” per cui, pur di non favorire in nessun modo i rivali musulmani, tutto è concesso, anche ammazzare decine di migliaia di bambini e lasciar morire di fame centinaia di migliaia di persone. E i governanti israeliani, criminali ma non sciocchi, lo hanno capito e ne approfittano.

Il ritorno di Trump

Queste scelte violano almeno tre valori fondanti delle democrazie moderne, così annebbiando il confine con modelli che liberali non sono, come argomentato anche da Mario Giro su queste pagine.

Il primo è proprio l’uso del confronto pacifico come strumento di progresso condiviso, e il rifiuto degli estremismi e dell’emarginazione a priori di certe posizioni. D’altra parte, la stessa scienza economica, con la sua teoria delle preferenze che tende a escludere scelte estreme, nasce dal pensiero classico liberale.

Il secondo è la trasparenza verso l’opinione pubblica: invece di dichiarare apertamente la scelta di appoggiare anche chi commette pesanti violazioni dei diritti umani pur di essere in opposizione ad altre parti (spesso anch’esse ripugnanti e criminali), si motivano gli aiuti economici e militari a una fazione, per esempio, come difesa dei valori occidentali che quella fazione condividerebbe. Propaganda della peggior specie.

Il terzo, e il più grave, è il principio inderogabile dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e la convinzione che ogni vita è ugualmente degna di essere vissuta. Troppe volte, invece, alcune persone e popoli sono intoccabili, mentre altri sono al massimo danni collaterali.

L’imminente presidenza di Donald Trump sarà apertamente anti-liberale. Se da una parte questo risolverà insopportabili ipocrisie, dall’altra dileguerà le poche rimanenti speranze per una svolta genuinamente democratica della politica internazionale statunitense. E ancor più rumoroso risulterà il silenzio dell’Europa tra i particolarismi degli stati membri e l’irresponsabilità, cinismo e inadeguatezza della dirigenza comunitaria.

Un altro detto recita: «LOccidente è il luogo migliore dove criticare l’Occidente». È senz’altro vero, quasi ovvio come certe teorie economiche, ma è bene ricordarlo. Bisogna tuttavia evitare che diventi una scusa per accettare supinamente le scelte di questa parte del mondo, tanto poi le possiamo criticare senza finire in galera o peggio.

A un certo punto, e di fronte a certi orrori, la critica fine a sé stessa diventa solo una cerimonia. In un tempo in cui l’Occidente è minoranza nel mondo, e altrove è ancora spesso percepito come invadente e sfruttatore, uno slancio di coerenza e credibilità nel promuovere il dialogo, garantire la trasparenza, e considerare ogni vita ugualmente sacra, è quanto mai urgente. Persa questa fiducia, il messaggio più semplice e chiaro di chi alla liberal-democrazia non crede diventa sempre più attraente.

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