Quando si cinguetta con personaggi disinvolti si rischia di essere trascinati lungo strade accidentate. È quanto sta succedendo in queste ore a Giorgia Meloni. L’algoritmo che presiede al funzionamento del cervello di Elon Musk evidentemente è andato in crash. E, con la sua derapata non controllata nella curva del Quirinale, ha travolto anche la sua grande sponsor italiana.

A lungo silente dopo le sparate del costruttore della Tesla, la presidente del Consiglio, ieri, tirata per la giacchetta da qualche sherpa con la testa sulle spalle (o forse dal redivivo Gianni Letta, il Mister Fix del berlusconismo dei tempi d’oro), ha fatto trapelare il «grande rispetto» per le parole del presidente Sergio Mattarella in risposta alla bordata sui giudici di Musk. Il minimo sindacale.

Perché, come suol dirsi, non ci ha ancora messo la faccia. Nessuna dichiarazione in video. Il caso forse non merita, come gli scontri tra antagonisti e CasaPound a Bologna, evento sul quale si è precipitata a intervenire per attaccare la sinistra, non certo i neofascisti del terzo millennio, e nemmeno a richiamare la calma tra le fazioni. Anzi, ravvivando ulteriormente il fuoco delle polemiche.

Proprio il contrario di quello che ci si aspetta da una capa del governo che dovrebbe rappresentare tutti. Invece, ancora una volta, Meloni si è dimostrata prima di tutto una capa di partito. E di che partito. 

Orgoglio neofascista

Eppure c’è stato un tempo, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, all’interno del Msi, e poi in Alleanza nazionale, in cui la destra nostalgica voleva dismettere quei panni e, soprattutto, ottundere la sua partecipazione o complicità alle violenze degli anni Settanta, di cui è stato protagonista anche chi occupa alte cariche dello stato.

In molti affiorava un ripensamento critico di quella temperie. Invece, archiviata l’esperienza di Alleanza nazionale, con il ritorno in campo dei missini duri e puri, guidati dall’impavida “Valchiria della Garbatella”, è come fosse stata avviata un’altra opera di rivisitazione del passato. Ma di segno contrario. Non di più profonda autocritica, bensì di fiera rivendicazione.

L’orgoglio neofascista, sottaciuto per tanto tempo per ragioni più meno sincere, è ora esploso con la potenza di un geiser. Questo orgoglio si ripresenta in diverse vesti. Quello della «radici che non gelano» e quello, più recente, della sintonia con i sovranismi e le democrazie illiberali di mezzo mondo.

Così come Meloni nel suo celebrato libro autobiografico, pubblicato appena tre anni fa, rivendicava amicizia e stima per Vladimir Putin, ora si muove in sintonia con i sovranisti delle due sponde dell’Atlantico da Viktor Orbán alla coppia Donald Trump-Musk.

Imbarazzo evidente

L’imbarazzo della capa del governo è evidente. Costretta a doversi accodare alle parole del presidente della Repubblica, non arriva però a formulare alcuna reprimenda per il suo amico Elon. Troppo forti i legami (gli interessi economici?) con il tycoon americano per dirgli di non permettersi di lanciare accuse alle nostre istituzioni e ai loro rappresentanti.

È vero che chi aspira a essere incoronato dal popolo sulla base di una acclamazione e disdegna, perché mai metabolizzati, gli istituti della democrazia rappresentativa, in fondo non può che condividere le sparate del nuovo esponente del governo statunitense (appena nominato al neonato Dipartimento per l’efficienza energetica).

La lotta ingaggiata da Meloni contro la magistratura la colloca oggettivamente dalla parte di Musk. Il problema è proprio questo. O ha ragione il proprietario della Tesla e di Starlink e questi magistrati devono essere messi sotto controllo perché non possono permettersi di ostacolare il cammino del governo, o ha ragione il presidente Mattarella a dire che il nostro sistema va rispettato per come è, e non ha bisogno di consigli da un miliardario.

Di fronte a una intrusione così sfacciata non basta condividere le parole del capo dello stato. L’inquilina di palazzo Chigi deve condannare esplicitamente le parole di Musk. Anche perché, e non è un dettaglio, sono in gioco corposi interessi economici, quali l’utilizzo della rete dei satelliti Starlink, tra l’imprenditore e lo stato italiano. Il rispetto per le nostre istituzioni vale più di un contratto.

© Riproduzione riservata