Dietro un saldo delle partite correnti negativo c’è il fatto che negli Stati Uniti il risparmio complessivo è inferiore alla somma di investimenti e deficit pubblico. Si potrebbe dire che quel paese vive al di sopra dei propri mezzi. Gli Stati Uniti possono permetterselo grazie al ruolo del dollaro come valuta di riserva internazionale
Gli Stati Uniti hanno dunque annunciato di voler imporre “dazi reciproci” ai loro partner commerciali ma, essendo magnanimi, applicheranno alle merci provenienti da ciascun paese un dazio pari solo alla metà di quello che lo stesso paese applica alle merci americane. Detta così sembra più che ragionevole e non dovrebbe costituire un grande problema in quanto si tratta di cifre di piccola entità. Oggi (fonte World Population Review) l’Unione europea applica un dazio medio dell’1,4 per cento alle sue importazioni, il Regno Unito dello 0,7 per cento, gli Stati Uniti dell’1,5 per cento, il Canada del 2,4 per cento, la Cina del 2,3 per cento. Parliamo quindi di imposte molto modeste. Dopo tutto siamo sempre nell’era della globalizzazione.
Tuttavia, nella tabella pubblicata ieri dalla Casa Bianca, si legge che, ad esempio, l’Unione europea applica dazi pari al 39 per cento alle importazioni dagli Stati Uniti e, quindi, gli Stati Uniti imporranno un “dazio reciproco” del 20 per cento sulle importazioni dalla Ue e così via per gli altri paesi. La fine della globalizzazione. Da dove viene quel 39 per cento? Si tratta, in realtà, di un numero che non ha nulla a che fare con i dazi: è calcolato come rapporto tra il disavanzo commerciale degli Stati Uniti nei confronti della Ue e le importazioni degli Stati Uniti dalla UE. Lo stesso calcolo (privo di fondamento economico) è stato fatto per tutti i paesi. Se il risultato è inferiore al 20 per cento (quindi anche se gli Stati Uniti hanno un surplus commerciale nei confronti di quel paese), si applica comunque un “dazio reciproco” del 10 per cento sulle merci provenienti da quel paese. «I dazi sono personalizzati per ciascun paese», ha detto un alto funzionario dell'amministrazione ai giornalisti, aggiungendo che si basano «sul concetto che il disavanzo commerciale che abbiamo con un determinato paese è la somma di tutte le pratiche commerciali sleali, la somma di tutti gli imbrogli».
Insomma se esistono disavanzi commerciali è solo perché ci sono barriere di vario tipo al commercio, frutto di pratiche scorrette. In equilibrio ogni paese dovrebbe avere un saldo zero nei confronti di ciascuno dei suoi partner. Non esistono vantaggi comparati. Una visione che dà le vertigini e la cui applicazione implica davvero molto più che la fine della globalizzazione: un salto di un secolo nel passato. Cerchiamo di mettere ordine. Innanzi tutto, perché considerare solo il saldo della bilancia commerciale (che riguarda le merci) e non quello complessivo delle partite correnti (merci, servizi e redditi)?
Lo scambio di merci tra Usa e Ue ha registrato un attivo europeo in discesa dai 166 miliardi di euro del 2021 ai 156 del 2023 (ma in risalita nel 2024), mentre negli scambi di servizi si è avuto un attivo americano crescente, dagli 87 miliardi del 2021 ai 109 miliardi del 2023 e in ulteriore salita nel 2024. L’area euro, dalla fine del 2022 al secondo trimestre 2024, ha registrato continui deficit di partite correnti nei confronti degli Usa, proprio a causa delle crescenti importazioni di servizi immateriali e degli acquisti di diritti di proprietà intellettuali, forniti dalle Big Tech americane. Al di là dei rapporti commerciali bilaterali, mentre l’Unione europea ha, da tempo, un saldo di partite correnti positivo (329 miliardi di euro nel 2023, per il 74 per cento tedesco), gli Stati Uniti hanno da decenni un enorme saldo negativo: 836 miliardi di euro nel 2023, passati a 1268 miliardi nel 2024 (al tasso di cambio medio dei due anni).
Dietro un saldo delle partite correnti negativo c’è il fatto che in quel paese il risparmio complessivo è inferiore alla somma di investimenti e deficit pubblico. Si potrebbe dire che quel paese vive al di sopra dei propri mezzi. Gli Stati Uniti possono permetterselo grazie al ruolo del dollaro come valuta di riserva internazionale: il disavanzo delle partite correnti è controbilanciato da movimenti di capitale dal Resto del mondo verso gli Stati Uniti che colmano, appunto, la differenza tra spesa nazionale e reddito nazionale. Per un paese “normale”, un disavanzo persistente si tradurrebbe in una svalutazione della moneta che alla fine, aumentando le esportazioni e diminuendo le importazioni, annullerebbe il disavanzo. Per gli Stati Uniti ciò non avviene proprio per il ruolo del dollaro come valuta di riserva e la conseguente elevata domanda mondiale di dollari. Ma applicare dazi nella misura astronomica annunciata potrebbe avere l’effetto di apprezzare ulteriormente il dollaro, vanificando, almeno in parte, il desiderato miglioramento della bilancia commerciale.
Qual è allora la logica delle misure decise dall’amministrazione americana? C’è solo una spiegazione possibile: spingere le imprese che oggi importano prodotti industriali negli Stati Uniti a rilocalizzare i propri impianti in qualcuno dei 50 stati americani. A lungo andare politiche protezionistiche possono produrre questo effetto. Ma in quanti anni? Inoltre, negli Usa oggi la quota dell’industria sul PIL è del 18 per cento mentre quella dei servizi è del 77 per cento. L’ossessione di Trump, per lo scambio di beni materiali?
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