La vittoria di Trump si inscrive in un processo ben più sistematico e globale: l’emergere prepotente della democrazia esecutiva. Si tratta di un sistema autocratico che finge di fondarsi sull’espressione della volontà popolare solo per rinnovare il credito di legittimità dell’esecutivo. Il reale fondamento di questo sistema non è il popolo, ma la presunta capacità dell’autorità esecutiva di proteggere i valori fondanti della tradizione. Sono cittadini autentici solo coloro che in quella tradizione si riconoscono
Credevamo che la democrazia fosse quel sistema in cui le leggi vengono scritte da chi deve obbedirvi. Credevamo che la sede principale della democrazia fosse il Parlamento. Credevamo che a protezione di tutto ciò vi fosse un potere giudiziario indipendente dal potere politico.
Temo sia arrivato il tempo in cui dovremo rivedere queste nostre credenze. Se molti, infatti, sono i possibili schemi per interpretare la fragorosa rielezione di Donald Trump, non c’è dubbio che questa si inscriva in un processo ben più sistematico e globale: l’emergere prepotente della democrazia esecutiva.
Fa senza dubbio difficoltà definirla “democrazia”, proprio perché, nel secondo Novecento, con tale termine si indicava un sistema incentrato su leggi e procedure. Quella era la democrazia intesa come equilibrio tra i poteri dello stato e come inossidabile garanzia degli spazi di libertà privati, che proprio nella rivoluzione americana aveva trovato la sua prima compiuta articolazione. Ma quel tipo di democrazia oggi è tristemente démodé. Non funziona, non piace più, disturba le nostre narici come se il suo afrore sortisse fuori dalle fessure dell’interrato in cui l’abbiamo riposta.
Eppure, come sempre accade nelle vicende umane, di nuovo c’è poco in questa metamorfosi. Nel 1932, a un anno dalla definitiva capitolazione della Repubblica di Weimar, il giurista tedesco Carl Schmitt metteva a punto l’ossatura fondamentale del sistema politico che oggi si sta diffondendo in Europa e nelle Americhe.
I suoi tratti essenziali sono cinque:
- La legittimità dell’autorità politica si fonda sull’espressione plebiscitaria della volontà popolare.
- Compito dell’autorità politica è leggere la filigrana più intima della comunità politica, individuarne i valori più profondi e i fini ultimi, e dare loro un’espressione visibile e netta.
- Per questa ragione, l’incarnazione massima dell’autorità politica è il potere esecutivo, che con la sua capacità di indirizzo vitalizza e promuove quei valori e quei fini.
- Gli altri poteri, e in particolare il potere giudiziario, devono contribuire nel modo più armonico e pedissequo al lavoro dell’esecutivo.
- Quest’ultimo ha da perseguire il compito supremo della tutela di quei valori e di quei fini, utilizzando ogni strumento in suo possesso per difendere la tradizione storica e spirituale della comunità politica.
Si tratta insomma di un sistema autocratico che finge di fondarsi sull’espressione della volontà popolare, chiamata a manifestarsi in condizioni saltuarie, al solo fine di rinnovare il credito di legittimità dell’esecutivo. Il reale fondamento di questo sistema, pertanto, non è il popolo, autentico MacGuffin di questa messinscena, ma la presunta capacità dell’autorità esecutiva di proteggere i valori fondanti della tradizione. In una tale perversa logica dell’identità posticcia, sono cittadini autentici solo coloro che in quella tradizione si riconoscono e ritrovano.
Poco importa che l’autorità politica non creda affatto nei valori e nei fini che sostiene di perseguire. Poco importa se il governo promuove un’agenda che stride con la condotta privata dei suoi membri. Poco importa, perfino, che né i membri del governo né i cittadini siano davvero capaci di dire in cosa consista la loro venerata tradizione.
Essenziale piuttosto è che il governo trasmetta la chiara idea di saper superare le lungaggini dei dibattiti parlamentari e flettere i vincoli legalisti del potere giudiziario. La democrazia esecutiva aspira a mettere al proprio servizio ogni altro potere al fine supremo di esprimere un volere stentoreo e dagli zigomi pronunciati su chi siamo e come ravvivare la gloria passata.
Nessuno allora andrà a scandagliare le note a piè di pagina dei programmi elettorali o a compulsare la fedina penale dei membri del governo.
Non stupisce, quindi, che la retorica delle varie democrazie esecutive sia sostanzialmente la stessa, al netto della manifesta differenza dei loro scopi e interessi di parte. Si tratta di un format funzionale ed efficace, in cui la compulsione per il leader decisionista si rigonfia e consolida tra le calde e tornite braccia di una tradizione che i nemici della comunità volevano seppellire sotto la messe di diritti arcobaleno e la moltiplicazione delle desinenze.
La democrazia esecutiva è un Dio mortale che dal popolo esige si accetti la nota scommessa pascaliana: comportiamoci come se davvero il leader credesse in quel che dice. D’altro canto, il suo più sentito monito è quello scritto nel noto passaggio di Pascal: «Bisogna rinunziare alla ragione».
© Riproduzione riservata