Dà dolore veder vincere chi ha spronato l'assalto al proprio Parlamento, mentito per prassi, espresso odio e promesso vendette. Ma l’Europa usi questo ennesimo avvertimento per darsi una scossa attraverso una politica che corrisponda all’intima aspirazione di milioni di persone a un futuro più giusto e solidale, che trasformi l’angoscia e il sovraccarico individuale in una reazione collettiva di “ricostruzione”
La vittoria netta di Donald Trump è brutta cosa. Dà dolore veder vincere chi ha spronato l'assalto al proprio Parlamento, mentito per prassi, espresso odio e promesso vendette, disprezzato la cooperazione internazionale, costruito un duopolio politico-digitale-militare con Elon Musk. Ma poiché sappiamo bene perché ciò è stato possibile, smettiamola di dolerci e almeno, noi in Europa, usiamo questo ennesimo avvertimento per darci una scossa.
Il perché di Trump 2 ce lo ha ricordato a chiare lettere Bernie Sanders. Si, proprio lui e il suo movimento, che con un accordo politico nel 2020 si spese per Biden in cambio della garanzia di una svolta che rispondesse ai bisogni e alle aspirazioni di chi sta ai margini. Spronato anche dalla senatrice Warren, Biden iniziò rilanciando l’obiettivo di una forte politica antitrust e che rimettesse le persone al centro della transizione digitale.
Ma i risultati non ci sono stati. Ha prevalso l’illusione di poter «navigare sotto costa», come Enrico Berlinguer si rivolgeva alla cattiva politica, insistendo nel modello neoliberista e anti-liberale degli ultimi trenta anni, rammendandolo. Senza capire che oggi, in tutto il mondo occidentale, di fronte a enormi e crescenti disuguaglianze, di reddito e ricchezza, di accesso ai servizi, di riconoscimento, prodotte da quel modello, ci sono solo due politiche possibili.
Una «politica del desiderio», come la chiama Savater, che corrisponda all’intima aspirazione di milioni e milioni di persone a un futuro più giusto e solidale, che osi grandi e solari obiettivi, che trasformi l’angoscia e il sovraccarico individuale in una reazione collettiva di “ricostruzione”.
Oppure una “politica della protezione”, che solletichi quell’angoscia e le dia in pasto muri, divieti, esclusioni, anche guerre, e per farlo chieda poteri senza verifica: non potendo più promettere nulla, è a questa sponda che il capitalismo monopolistico si volge; è l’incontro fra neoliberismo e autoritarismo. In mezzo, fra queste due opzioni c’è il nulla. E il nulla perde.
Una sveglia per l’Europa
E allora non sarà che magari, di fronte a questo nuovo segnale, qui in Europa, nell’Unione europea intendo, riusciamo a darci una sveglia? Attenzione, lo chiedono in tanti da tempo: unità, coordinamento, capacità di decisione.
Ma per fare cosa? Per quali missioni? Per creare dei Musk europei indebolendo l’antitrust? Per commercializzare la conoscenza delle istituzioni pubbliche di ricerca? Per realizzare uno sviluppo trascinato dalle spese per la difesa? Per inseguire un modello americano i cui limiti conoscevamo già ieri?
Per disegnare politiche industriali e commerciali, parlando, come nel ‘900 di “paesi allineati” e “non allineati – vorrei capire dove collocare gli USA di Trump - quando invece è nell’interesse dell’Ue negoziare e cooperare con chiunque? No, lo abbiamo scritto con chiarezza come Forum Disuguaglianze e Diversità commentando il Rapporto di Mario Draghi. Un documento che – a parte i suoi numeri eclatanti, «cortina fumogena» li abbiamo definiti – sostiene quelle strade perdenti e che è penetrato negli indirizzi di pressoché ogni membro-designato della nuova Commissione Ue, senza un contraddittorio politico-strategico complessivo, né nel Parlamento Europeo né nelle arene democratiche di ogni luogo d’Europa.
No, intendiamo e intendo unità, coordinamento e capacità di decisione per una politica del desiderio, che parta dalle aspirazioni delle persone e sfrutti i punti di forza dell’Europa. Che sono almeno tre.
Le tre carte da giocare
Primo, il principio della conoscenza aperta e accessibile a tutti. Secondo, un sistema di imprese medio-grandi e medio-piccole, innovative e tutelate e tenute in gara da una forte tutela della concorrenza.
Terzo, la densità, vivacità e creatività del tessuto democratico privato, pubblico e sociale dei territori dell’intera Europa. Giocate bene sono tre carte che potrebbero dare vita a una politica industriale e del welfare dell’Ue capace di trasformare le angosce in speranze e di spronare innovazione produttiva e sociale. Vediamo.
La spinta a rendere la conoscenza accessibile ha le radici nella storia dell’Europa, nella tradizione delle sue Università aperte, e trova vita oggi in grandi centri di ricerca europei come il Cern. Ne discende una strada radicalmente alternativa per la transizione digitale, dove la massa di dati in quotidiana crescita non è usata da un monopolista per venderci i servizi e i prodotti congeniali alla massimizzazione del suo patrimonio e domani per sottrarre agli Stati il monopolio della violenza, ma per tramutare i nostri problemi in opportunità.
Come l’opportunità di un’infrastruttura europea per la ricerca di farmaci e terapie che sviluppi le proprie innovazioni fino alle soglie del mercato, affinché le imprese competano poi fra loro per produrle, e per ogni paese del mondo: quella idea che il Parlamento europeo ha discusso e su cui oltre 150 europarlamentari si sono espressi positivamente, nonostante la morta gora dei principali gruppi. Questa è politica industriale e del welfare, stile europeo.
E ancora, si potrebbe decidere di tradurre le gran chiacchiere dei Piani di adattamento climatico che l’Ue ha chiesto a ogni Stato membro di redigere – invito a leggere il burocratese astratto del nostro Piano – in un disegno di politica industriale dove l’enorme quantità di dati che vengono dalle persone, dai sensori e dai satelliti siano impiegati per innalzare la nostra capacità di previsione degli impatti, luogo per luogo, dei nuovi fenomeni climatici, per attrezzarci ad affrontarli o a impedirne gli effetti, anche modificando i nostri luoghi di vita o lavoro.
Non perché un giorno ci arriverà un ordine delle autorità, ma perché quelle analisi sono un bene comune che alimenta un confronto democratico. Come è avvenuto in Italia quando meglio si sono affrontati gli effetti dei sismi.
Strade di utilizzo della conoscenza come queste alzano la palla alla seconda grande carta dell’Europa, il suo sistema di imprese medio-grandi e medio-piccole. Sì, certo, anche in Italia. Perché, come dovrebbe essere noto, la stagnazione ventennale della nostra produttività media è la combinazione di un pezzo innovativo del sistema che offre buon lavoro, spesso esporta e anche nell’economia verde ha posizioni importanti e dove la produttività cresce, e un sistema inefficiente dove la produttività scende, tenuto in vita da lavoro irregolare ed evasione, permesse da governi che navigano sotto costa, se non in una pozzanghera.
Bene, in tutta Europa la componente innovativa marcia, ed essa sarebbe pronta a raccogliere la palla di politiche industriali come quelle per la salute e per l’adattamento climatico che sopra accennavo, magari guidate da imprese pubbliche a cui sia assegnata una strategia. Cercano certezze. Il contrario di quello che in Italia e in tutta Europa hanno dallo stop and go delle politiche energetiche.
Tutto questo può avvenire e può corrispondere ai bisogni delle persone grazie alla terza carta dell’Europa che è il suo tessuto democratico territoriale. È vero ovunque in Europa. Facendo da contrappunto alle esitazioni e modestie delle classi dirigenti degli Stati e spesso delle Regioni, all’incapacità delle organizzazioni imprenditoriali di pensare strategico, alle esitazioni di gran parte dei grandi corpi intermedi nazionali, civici e del lavoro, quando scendi nel micro, si tratti di Germania o Italia, di Polonia o Olanda, trovi a livello territoriale esempi diffusi di collaborazione originale delle forze locali del pubblico, del privato sociale e del privato.
E trovi in tanti luoghi addirittura la lucida follia di figure giovani, espressione di quei tre mondi, che si candidano alla guida di Comuni, avendo in testa non il “potere per il potere”, ma il potere per realizzare una politica del desiderio. Chiedono sponde di sistema. Oggi non le hanno. In Europa la strada la indica l’antica intuizione di Jacques Delors tradottasi nel principio della coesione sociale, economica e territoriale. E nel disegno di politiche sensibili alle persone nei luoghi.
Si tratta di rilanciare questo metodo che la logica top-down e priva di monitoraggio e valutazione pubblici dei Piani nazionali di ripresa e resilienza ha messo in sordina. Sarebbe la chiave democratica per chiudere il cerchio con gli altri due punti di forza dell’Europa: fornendo contributi, dati e saperi a un sistema aperto di produzione della conoscenza; e pesando strategicamente nelle scelte imprenditoriali, come nella proposta del ForumDD dei Consigli del lavoro e della cittadinanza.
Queste sono tre carte giocabili che come ForumDD abbiamo indicato nel libro Quale Europa, prima del voto e che torniamo a raccomandare oggi ancora più di ieri. Si intenda il messaggio semplice che viene dagli USA. Lo si ritrovi in ognuno dei nostri paesi, in salse nazionali. Si riconosca di essere su una strada sbagliata.
Si capisca che per fermare l’autoritarismo che avanza non basta spendere e far debito, dipende per cosa si spende e si fa debito. Si torni a guardare le cose dal punto di vista delle persone subalterne. Si abbia orgoglio per alcuni valori dell’Europa, riconoscendo, specie nel dialogo con l’Africa i nostri grandi disvalori. E allora forse la storia che pare volgere al peggio potrà essere diversa.
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