Si sta creando una zona grigia in cui si assomigliano. La democrazia liberale è accusata di essere un prodotto occidentale. Non siamo in presenza di un ritorno al passato ma di un’evoluzione ulteriore della governance democratica. Oggi si preferisce provocare un’autocensura piuttosto che reprimere direttamente
Il dibattito sulla democrazia si svolge ormai a livello globale. Ci fu un’epoca d’oro in cui la democrazia era considerata la scelta migliore per tutti, tanto che Magdeleine Albright e Bronislaw Geremek lanciarono nel 2000 da Varsavia l’idea di una “comunità delle democrazie” con l’intento finale di creare un’organizzazione alternativa all’Onu.
La comunità delle democrazie non è mai davvero decollata: oggi ha 16 membri (tra i quali l’Italia ma non la Francia, la Spagna, il Regno Unito o la Germania) e vivacchia di convegni. La democrazia liberale non va più di moda ora, mentre piacciono i regimi autoritari considerati più veloci ed efficaci. In un mondo frammentato, caotico e contraddittorio la democrazia appare troppo lenta e burocratica: un sistema poco adatto alle sfide del presente perché “non decide”.
C’è di peggio: la caduta delle regole internazionali si è accompagnata con la perdita di reputazione della democrazia liberale, accusata di essere un prodotto esportato dall’occidente e creato esclusivamente per la sua convenienza. I nemici della democrazia liberale – come Vladimir Putin ma anche Viktor Orbán – parlano di crisi del liberalismo (il primo) e di “democrazia illiberale” (il secondo).
La reazione ordinaria a tali affermazioni è di vedere in tali posizioni un ritorno a modelli dittatoriali e/o fascisti o parafascisti. Tuttavia non è detto che sia questo il modo migliore per analizzare la questione. Fascismi vari e regimi autoritari sono anch’essi molto diversificati, sia quelli del passato come i più recenti.
Un’evoluzione subdola
Tuttavia associare o fare il paragone tra Pinochet, il franchismo, il neofascismo (tanto per fare degli esempi) e ciò che sta accadendo adesso può essere fuorviante. Non siamo in presenza di un ritorno al passato, ma di un’evoluzione ulteriore della democrazia stessa (che ovviamente può essere giudicata come un’involuzione). Avviene qualcosa di molto più subdolo e pericoloso di un puro e semplice ritorno al passato. Sono i populismi ad assomigliare di più ai vecchi autoritarismi del secolo scorso, non invece i sovranismi di nuovo conio.
Innanzitutto la democrazia illiberale contemporanea non si oppone al mercato (in specie finanziario), ma è sua stretta alleata, o sarebbe meglio dire servitrice. In secondo luogo il bisogno di ordine in un mondo caotico non si trasforma in repressione pura (salvo eccezioni), ma cerca il consenso popolare per dare una stretta alle regole sociali, instaurando freni e meccanismi di autoregolazione.
In altre parole, si preferisce provocare un’autocensura piuttosto che reprimere direttamente. Infine la democrazia illiberale attuale non si oppone all’individualismo della diversità degli stili di vita: ammette ogni pluralità fintanto che non provochi disordine, cioè a patto che sia vissuta nel foro individuale e non intacchi l’armonia collettiva. “Dio, patria e famiglia” sono solo slogan vuoti: sarebbe più corretto dire “Individuo, ordine e mercato”, ma è meno elegante…
Il modello
Il modello evolutivo della democrazia liberale è Singapore piuttosto che i vecchi fascismi di una volta: una società dove si vota ma anche ci si autocontrolla e non si ammettono devianze. È a Singapore che Deng Xiaoping comprese l’utilità di fare della Cina una società economicamente libera ma socialmente e culturalmente controllata. Xi Jinping ha portato tale intuizione ai massimi livelli di controllo, rendendola forse troppo rigida. Il patto singaporiano è semplice: la popolazione accetta di limitare la propria libertà in cambio della prosperità. Molti regimi asiatici stanno imitando tale schema.
Viktor Orbán propone qualcosa di simile agli ungheresi, connettendo prosperità, identità e sicurezza. Questo spiega la politica del premier ungherese verso i migranti ma anche la sua opposizione alla guerra contro la Russia. Ciò che spaventa della democrazia liberale è la sua incapacità a gestire le sfide dei tempi contenendole: guerre, disordini, caos economico, globalizzazione che va in crisi, interdipendenza economica, crisi dei valori e del multilateralismo.
Progressivamente anche nelle altre democrazie liberali occidentali cresce la parte di cittadini che accetterebbero una (magari temporanea) limitazione delle libertà pubbliche (attenzione: non quelle private!) in cambio di ordine e di migliori performance economiche. Basta non intaccare le decisioni soggettive delle persone, quelle sull’identità e valori (gender, credenze e così via), sul modo in cui scelgono di vivere e/o di identificarsi.
I Paesi Bassi sono diventati dei precursori: reazionari sui migranti; nazionalisti sull’unità europea; laicisti sulla religione; libertari e wokisti sulle scelte individuali; hub del mercato finanziario globale (e punto di entrata della droga in Europa). D’altronde anche i vecchi fascismi del secolo scorso avevano dovuto patteggiare con il settore privato e trovato un limite nella religione.
Limite alle libertà pubbliche
C’è però una condizione imprescindibile: se il nuovo modello illiberale non riesce a compiere lo scambio “controllo-prosperità”, è destinato a fallire. In tal caso, per mantenersi gli resta solo la (antica) risorsa del nemico esterno come capro espiatorio a cui addossare le colpe, cioè in ultima analisi la guerra, che inizia sempre come guerra interna contro i più poveri, i diversi devianti e gli ultimi (migranti, rom ecc.), per poi rivolgersi contro lo straniero.
Il modello democratico illiberale si configura dunque non come un regime repressivo (al pari dei vecchi autoritarismi), ma preventivo delle libertà pubbliche, in particolare utilizzando la tecnologia di tracciamento, riconoscimento facciale e sorveglianza digitale. Possiamo constatare che il desiderio di controllare a monte le reazioni sociali è diventato l’aspirazione di tutte le democrazie, comprese quelle più avanzate in tema di diritti. In questo senso la democrazia controllata o limitata alla Orbán non è un ritorno indietro a vecchie forme di fascismo, ma un’inattesa evoluzione che prospetta il futuro collettivo. A Singapore, si definisce tale sistema come “democrazia post liberale”.
La specialista dei regimi asiatici Eugénie Mérieau ha analizzato la connessione tra questi ultimi e le democrazie liberali, trovando molte più consonanze del previsto: «Cerco di dimostrare che si assiste a una convergenza dei regimi autoritari e democratici verso una zona grigia, dove da un lato non c’è più una dittatura violenta e dall’altro svanisce lo stato di diritto, ma restano solo dei regimi che utilizzano il diritto e la giurisdizione per mantenersi al potere».
La zona grigia
Non tanto diverso il progetto di Donald Trump: evocare antichi valori (patria, famiglia, America paese prescelto per governare il mondo, ecc.) ma puntare a scardinare il sistema dei pesi e contrappesi, come la magistratura e il Congresso. Ogni attacco al modello parlamentare è una delle prove di virata verso la democrazia illiberale.
Nella zona grigia si stanno sviluppando modelli di governance diversi dagli autoritarismi del passato. La stessa zona grigia si allarga: un elemento comune è certamente l’alleanza con il neoliberalismo che rigetta ogni vecchia politica dirigista, autarchica o statalista (di destra o di sinistra che sia). Il multilateralismo viene accettato, ma come quadro di lotta tra influenze piuttosto che come spazio democratico paritario: in questo nemmeno le democrazie liberali hanno certo brillato. Sulle migrazioni (salvo lo sportwashing) la zona grigia si amplia in un rifiuto generalizzato. Sulla guerra e il bellicismo non c’è più differenza tra democrazie liberali e illiberali o regimi autoritari. La democrazia come la conoscevamo sta mutando pelle sotto i nostri occhi.
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