I tanti, troppi casi di uccisione di donne ci feriscono. La sensibilità per i maltrattamenti subiti dalle donne è un segno dei tempi; basti pensare, solo in questo secolo, a Maputo, la carta africana del 2003, o alla convenzione del Consiglio d’Europa del 2011 siglata a Istanbul.

In Italia la Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, istituita nel 2017, ha appena consegnato una meritoria relazione. La maggior parte delle molestie avvengono nei rapporti di lavoro, e il movimento MeToo ha contribuito a farle emergere. Ma l’attenzione è rivolta là dove la violenza ha esiti fisici, molte volte culminanti con la morte della vittima.

Su questo si concentra la convenzione di Istanbul, che dopo aver appena abbozzato un contesto storico, «riconoscendo che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi», in 81 lunghi e dettagliati articoli presenta un ampio spettro di situazioni e dei provvedimenti che gli stati sono invitati a prendere per agire «sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica».

Perché in particolare quella domestica? Perché la domus, l’abitazione, appare come il luogo massimo di violenza sulle donne? È forse il segno della modernità? In antico regime le classi agiate vivevano in ampi spazi nei quali i singoli, pur legati dal rigido vincolo dei ruoli, intrattenevano più lente frequentazioni. La gran massa della gente semplice popolava piuttosto gli spazi esterni, se non direttamente la strada, che pullulava di frotte di ragazzini e gente vagabonda.

L’era della borghesia

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I legami familiari erano ampi e incerti, nonostante fin dal Cinquecento nel mondo cattolico il concilio di Trento avesse provveduto a normare e regolarizzare il matrimonio. Ma poi, con la rivoluzione borghese si affermò un diverso modello di vita, in cui si costruì una sfera privata nettamente distinta da quella pubblica.

Nacque allora la “domesticità”: la famiglia, rigidamente normata (niente divorzio, scarsa l’educazione scolastica delle donne, controllo dei minori, servitori domestici nei propri alloggi) era rinserrata in un microcosmo chiuso ma non paritario.

Del resto, se quel mondo nuovo poteva utopisticamente concepire come egualitaria la società intera (con tutti i conflitti che l’accompagnarono), difficilmente poteva concepire come egualitaria una micro comunità, fosse un equipaggio, una squadra, in fabbrica o in campo di gioco, o una famiglia.

Nella domus regnava il capofamiglia, con tutte le sue appendici. In fondo, è questo il modello che si è esteso alle masse; ma lo spazio si è fatto ancora più ristretto e claustrofobico, il dominio maschile sempre più insicuro, sempre meno protetto da regole e risorse.

Oggi vorremmo che la società, le istituzioni, esercitassero un controllo sulla violenza domestica. Molte delle istituzioni elencate a Istanbul sono in effetti operative, presenti sul territorio. Agiscono soprattutto quando la tensione familiare è esplosa, e le donne hanno saputo compiere il gesto della denuncia e della separazione, e spesso quando la tensione è giunta al suo drammatico epilogo, conseguente a quella denuncia o a quell’allontanamento.

Un confine caldo

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Non si discute qui del modello di mascolinità che è in gioco, ma sappiamo che le violenze seguono quasi sempre lo stesso copione, dove l’uomo non sopporta la separazione, il sottrarsi della donna al suo dominio.

Si vorrebbe allora che la società, con le sue istituzioni, intervenisse prima che sia troppo tardi. Di questo pure si parla molto, e in effetti si fa ogni sforzo in questo senso. Ma ci si muove qui sul confine, delicato ed esplosivo, che corre tra pubblico e privato, il confine caldo del nostro mondo. Nelle società di antico regime, il privato, non ancora egemone, era tempestato di regole: autorizzazione paterna al matrimonio dei giovani, autorizzazione del marito sugli atti patrimoniali della moglie, i minori, come le pulzelle, erano tutelati da una apposita magistratura (il magistrato dei pupilli), gli orfani – se dotati di patrimonio – da appositi consigli di famiglia, e così via.

Di tutto ciò ci siamo alleggeriti. E come può allora il pubblico rientrare nel privato? La società intera, se raggiunta fin nel cuore della domesticità, dovrebbe essere quasi militarizzata.

È noto che nei casi più gravi l’intervento di un agente di polizia, o di un assistente sociale, non potrebbe essere occasionale; una volta rientrata nel suo privato, la donna sarebbe oggetto di violenza aggravata.

Non a caso le donne esitano a denunciare i maltrattamenti, e se estratte dall’ambito familiare attirano l’ira del padrone rimasto solo con i suoi fantasmi. Per non parlare della loro dipendenza economica, o delle ritorsioni sui figli, che sono spesso i principali rifugi affettivi delle donne e costante oggetto di ricatto da parte degli uomini.

No, non è pensabile. Ancor meno pensabile in una società dove la tutela della privacy si è fatta ossessiva, maniacale, e dove, d’altra parte, l’intervento delle istituzioni per tutelare la salute pubblica imponendo la vaccinazione suscita le proteste che oggi agitano le nostre strade.

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