Nel 2003, quando l’Italia ha proceduto all’adattamento del suo ordinamento alla Convenzione di Mérida, il nostro ordinamento era comprensivo del reato, la cui abrogazione è ragionevole presumere abbassi il livello di compatibilità del diritto italiano con gli obiettivi che la Convenzione si pone
Nell’ultimo mese ben quattro tribunali italiani hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale ritenendo illegittima l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Le ordinanze di rimessione invocano gli art. 11 e 117 primo comma: il primo che costituisce lo strumento di aggancio costituzionale del diritto dell’Unione europea, il secondo il quale impone al legislatore italiano di rispettare i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Quest’ultimo, in particolare, è evocato con riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (nota anche come “Convenzione di Mérida”), adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003. È il caso di ricordare che un trattato internazionale, una volta ratificato da uno Stato, entra in vigore nell’ordinamento internazionale ma per produrre effetti nell’ordinamento interno di quel medesimo Stato, ivi compreso quello italiano, ha bisogno che venga fatto oggetto di norme di adattamento, di “esecuzione”.
Ebbene, l’Italia ha eseguito la Convenzione di Mérida con la quale il legislatore italiano ha adottato le norme che erano necessarie ad adeguare il nostro ordinamento alla Convenzione; tali norme erano, quindi, individuate sulla base dello stato del medesimo ordinamento nel 2003, quando esso contemplava il reato di abuso d’ufficio.
Quanto alle previsioni della Convenzione che l’abrogazione del reato di abuso di ufficio avrebbe violato, e che quindi opererebbero come norme interposte nel giudizio di costituzionalità, è opinione dei Tribunali che la Convenzione preveda un obbligo di criminalizzazione – o quanto meno di “non decriminalizzazione” – che sarebbe stato violato dall’abrogazione del reato di abuso di ufficio.
Premesso che il diritto internazionale generale, il quale vincola tutti gli Stati indipendentemente dalla loro volontà, non impone agli stessi di non modificare, successivamente e “in peggio” rispetto agli obblighi internazionali così assunti, lo stato del proprio ordinamento interno. Ora, la Convenzione di Mèrida contiene una norma che “aggiunge” per i suoi Stati membri, all’obbligo di rispettarlo sul piano internazionale che è conseguenza della sua ratifica anche quello di conformarvi il proprio ordinamento interno.
Una clausola di questo tipo, insomma, ha la funzione di creare un obbligo internazionale “supplementare”, quello di assicurare la conformità delle leggi nazionali con i vincoli assunti nell’ordinamento internazionale, al fine di radicare la responsabilità internazionale degli Stati membri che non abbiano provveduto ad eseguire o ad eseguire correttamente al loro interno la Convenzione. Inoltre la stessa Convenzione contiene una norma che impone agli Stati membri di adoperarsi per adottare, rafforzare e, per quanto ci interessa, mantenere sistemi che promuovano la trasparenza e prevengano i conflitti di interessi, come effettivamente il reato abrogato faceva.
Si tratta, quindi, di una norma che, se applicata in buona fede, forse, potrebbe effettivamente implicare, se non un obbligo di criminalizzazione, quanto meno uno di non decriminalizzazione o una sorta di standard minimo di criminalizzazione, e questo al fine di garantire una certa stabilità del regime di lotta alla corruzione, con il quale l’abrogazione totale di un reato come quello di abuso d’ufficio potrebbe essere incompatibile. E questo anche in considerazione delle attività svolte in sede di esecuzione interna della Convenzione da parte del legislatore italiano: come abbiamo detto, infatti, la Convenzione impone agli Stati membri di rendere i propri ordinamenti interni compatibili con gli obblighi derivanti dalla sua ratifica e la modalità concreta di attuazione di questo obbligo di adattamento dipende, ovviamente, dallo stato degli ordinamenti interni e quindi varia da Stato a Stato e anche, nel tempo, rispetto al singolo ordinamento considerato.
Nel 2003, quando l’Italia ha proceduto all’adattamento, il nostro ordinamento era comprensivo del reato di abuso d’ufficio, la cui abrogazione è ragionevole presumere abbassi il livello di compatibilità del diritto italiano con gli obiettivi che la Convenzione si pone.
Non stiamo qui sostenendo, si badi bene, che ogni depenalizzazione costituisca una violazione della Convenzione ma che, probabilmente, una norma come quella dell’abuso d’ufficio, di portata piuttosto generale, era particolarmente adatta a rappresentare una norma di “chiusura” (“salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”…) dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalla Convenzione, e che, in considerazione di questo la sua abrogazione potrebbe effettivamente comportare una violazione del vincolo di rispetto degli obblighi internazionali che l’art. 117 Cost. impone al legislatore.
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