Ma perché continuare a ricordare, a macerarsi, a dividersi, ripetitivamente se non ormai ritualmente, ogni anno, in questa come in altre occasioni?

La risposta più ovvia “affinché non accada mai più”, se presa alla lettera è anche la più fragile. Decenni di investimenti massicci, memoriali, istituzionali, scientifici e didattici sulla Shoah non hanno cancellato l’antisemitismo dal novero del pensabile in Europa, mentre la più generale intolleranza nei confronti dei gruppi umani “sbagliati” in mezzo a noi, è viva più che mai.

Più solido è quell’auspicio se declinato come impegno operoso, alternativo alla rassegnazione al male, che a sua volta è l’anticamera della coazione a ripetere. Allora anche dire “basta” stragi come le foibe, “basta” cacciate di popoli dalle loro terre come quella sperimentata dagli esuli giuliano-dalmati, significa parlare di oggi, degli spaventosi eccidi e dei continui esodi che media e social ci propongono quotidianamente. Significa ribellarsi alle dinamiche di morte e sopraffazione, non perché scompaiano, ma affinché non prevalgano.

Memoria e dolore

Un’altra ragione per ricordare è la condivisione delle sofferenze patite da una parte della comunità di cui si è membri, in questo caso quella nazionale. Un’amputazione c’è stata, il corpo non è più quello di prima, non solo perché nel Novecento hanno oscillato i confini – notoriamente mobilissimi – ma perché, con la sparizione quasi integrale del gruppo nazionale italiano dai territori assegnati nel secondo dopoguerra alla Jugoslavia, si è aperta sulle rive dell’Adriatico orientale la maggior frattura storica dell’epoca della romanizzazione. È largamente venuta meno così la principale peculiarità di una delle grandi aree di frontiera europee e cioè la sua pluralità, fonte di ricchezza culturale e civile se pur talvolta faticosa.

Quella mutilazione è realtà ed oggi non c’è né da vergognarsene – come per decenni hanno dovuto fare gli esuli – né da imprecare contro chi impugnò l’accetta, ma semplicemente da ammettere che è accaduta ed è stata un gran male.

Va da sé che ricordi di tal fatta sono vittimari e quindi unilaterali. Cioè è comune a molte delle giornate memoriali e di per sé non è sbagliato, perché è segno di rispetto verso chi molto ha patito, ma non basta. Nei territori di frontiera tutto è doppio o triplo, comprese le percezioni e le memorie dolenti, che reclamano tutte cittadinanza: oltre a quelle dei congiunti degli infoibati e quelle degli esuli e dei loro discendenti, ci sono quelle degli sloveni e dei croati vittime delle persecuzioni, stragi e deportazioni fasciste.

Ma neanche il riconoscimento reciproco e, per quanto possibile, l’empatia, sono sufficienti, se non vengono accompagnati dallo sforzo di capire. In questo senso, la legge istitutiva del Giorno del Ricordo offre ampi spazi. Ha ovviamente il suo focus nelle foibe e nell’esodo, perché mira innanzitutto a riparare un torto, quello della dimenticanza collettiva verso quelle tragedie; contemporaneamente però, il riferimento alle “altre vicende” delle terre adriatiche spalanca un orizzonte vastissimo di possibilità.

Contestualizzare

Alcune riguardano la contestualizzazione, sia diacronica che sincronica, delle tragedie degli italiani dell’Istria, di Fiume e di Zara. Diacronicamente, ciò vuol dire inserire la crisi del periodo 1943-1956 in una storia di più lunga durata che affronti necessariamente alcuni dei grandi nodi dell’età contemporanea: i processi di nazionalizzazione parallela antagonista in tutti i territori asburgici; il nesso fra irredentismi e politiche di potenza degli stati confinanti; la successione di regimi totalitari; l’escalation delle forme della violenza politica in relazione al mutato carattere delle guerre ed al venir meno, nella seconda, della distinzione fra militari e civili; le rivoluzioni ad un tempo nazionali e sociali; la divisione del continente in blocchi contrapposti.

Sincronicamente, significa porre in relazione le stragi delle foibe con quelle perpetrate in Slovenia e Croazia nei medesimi giorni, tanto che gli eccidi di italiani nella Venezia Giulia appaiono come il margine occidentale della grande ondata di massacri di oppositori a qualsiasi titolo del movimento partigiano guidato da Tito, che nel maggio 1945 caratterizzò la Jugoslavia nel momento della cacciata dei tedeschi e dell’instaurazione del regime comunista: situazioni tutte dove nel decidere fra la vita e la morte la politica contava più dell’etnia, e ciò anche perché nelle Venezia Giulia dentro la criminalizzazione politica non stava solo la militanza fascista, ma anche la volontà di appartenenza all’Italia piuttosto che alla Jugoslavia, espressa a prescindere dalla stirpe di origine.

Altrettanto indispensabile appare la correlazione fra l’esodo dei giuliano-dalmati ed i grandi spostamenti forzati di popolazioni del tempo di guerra e dopoguerra, come quelli dei tedeschi, dei polacchi e degli ucraini, senza dimenticare il precedente della megali catastrofi, il collasso dell’ellenismo lungo le coste anatoliche agli inizi degli anni Venti del Novecento, che tante similitudini mostra con quello dell’italianità adriatica.

Evitare il benaltrismo

Certamente, la contestualizzazione funziona bene solo se viene condotta con rigore per allargare gli sguardi, senza trasformarla in mera strategia di elusione nei confronti delle vicende più scomode, seconda la nota retorica del “parliamo piuttosto di…”, oppure per sminuire la portata di fenomeni come l’esodo dei giuliani dalmati, che certamente riguardò 300omila persone e non dieci milioni, ma comportò comunque la scomparsa di un gruppo nazionale, nella totalità delle sue articolazioni, dai suoi territori di insediamento storico: una delle tante “fini del mondo”, che segnano su scala diversa la vicenda umana.

Altre opportunità vengono offerte dalla tematizzazione di costrutti complessi come le identità collettive. Ad esempio, fra i patrioti dalmati Bianchini e Giglianovich, qual era l’italiano e quale il croato? E quindi, come si fa a distinguere ieri un italiano da uno sloveno oppure oggi un ucraino da un russo? In base al cognome? Al passaporto? Al colore degli occhi? Alla lingua parlata? A quello che dice di essere? Tutte assieme, quelle opportunità da esplorare offrono un’immagine che non è quella monocroma della retorica, bensì quella cangiante della complessità. È proprio su questi aspetti problematici del resto, che richiamano l’attenzione degli insegnanti le Linee guida per la didattica della Frontiera adriatica emanate l’anno scorso dal Miur.

È anche inevitabile che una materia intrisa ancora di memorie non riposte negli scaffali accademici e che per giunta si è prestata e tuttora si presta ad usi politici partigiani, sia sottoposta a torsioni e strumentalizzazioni assolutamente esacrabili, specie in occasione degli eventi memoriali.

Buona storia e buona politica

La risposta però non sta nello stracciarsi le vesti, gesto che tranquillizza le coscienze politiche mentre moltiplica le retoriche. La risposta sta nella buona politica, nella buona storia e nella buona didattica. Di buona politica, l’esempio viene dall’alto, dai gesti di riconciliazione compiuti dai presidenti d’Italia, Slovenia e Croazia. Buona storia è quella che si cerca di fare incrociando le fonti e moltiplicando i punti di vista: ce n’è ormai tanta, basta leggerla.

Buona didattica è il lavoro di un numero sempre più elevato di insegnanti che non si limitano a condurre gli studenti in aula il 10 febbraio per consentir loro di giocare con il cellulare mentre l’esperto di turno parla di cose incomprensibili, ma che inseriscono la ricorrenza all’interno di percorsi didattici coerenti; affollano le iniziative di aggiornamento proposte vuoi dal Miur vuoi dalla rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea; imparano ad usare una storia localizzata come slancio per affrontare le grandi strutture della contemporaneità nel vecchio continente; e magari, cercano di progettare strumenti didattici a più voci assieme a colleghi delle repubbliche di Slovenia e Croazia, seguendo anche in questo le indicazioni delle Linee guida, che sottolineano come qualsiasi storia nazionale vada stretta ad una realtà multietnica e multiculturale.

Per chi ragiona così, il Giorno del Ricordo non è una scadenza da cercar di superare senza troppi danni, ma un’occasione preziosa per far interagire memorie e spirito critico. Una sfida anche, perché la cittadinanza comune europea di cui tanto si parla non sempre a proposito, si costruisce anche facendo i conti con il passato. Altrimenti, non passerà mai.

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