Il meccanismo di calcolo utilizzato dall’amministrazione americana mira evidentemente a colpire un Paese solo perché esporta negli Usa più di quanto importi da loro. Un procedimento arbitrario e incompatibile con gli obblighi internazionali
Come minacciato, l’amministrazione statunitense di Donald J. Trump, invocando norme che consentono al presidente di tutelare, tra gli altri interessi, quello alla sicurezza nazionale, ha infine imposto dazi doganali nei confronti dei prodotti provenienti da 57 paesi (tra i quali l’Unione europea complessivamente intesa) che, partendo da un valore base del 10%, si spingono fino a oltre il 50%.
Tali dazi, pur definiti «reciproci», e la cui adozione mirerebbe a riequilibrare ingiustizie che gli Usa avrebbero subito dai partner commerciali, sono ben lontani dal rispettare il principio di reciprocità, uno dei cardini del sistema commerciale multilaterale.
Dall’istituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), avvenuta nel 1995 e di cui gli stessi Stati Uniti sono stati i principali promotori, la materia dei dazi doganali sugli scambi di merci è regolata, sul piano internazionale, da una serie di obblighi contemplati dagli accordi gestiti e amministrati dalla stessa OMC, i quali non prevedono un divieto assoluto di dazi doganali che, anzi, in applicazione del principio di protezione doganale esclusiva, costituiscono per gli stati gli unici strumenti legittimi di restrizione degli scambi internazionali, essendo tutti gli altri, e in particolare le restrizioni quantitative, vietati da detti accordi.
Cosa dicono le regole
Il sistema di regole dell’OMC contempla pure un obbligo, quello del trattamento generalizzato della nazione più favorita, ricordato esplicitamente nell’atto di Trump, in base al quale ogni vantaggio concesso da uno stato membro a un altro stato si estende automaticamente a tutti i membri dell’OMC.
Per capirsi: nel momento in cui un membro accorda a un altro stato un determinato livello di dazio doganale, lo stesso si applica a tutti i prodotti similari provenienti da qualsiasi membro dell’Organizzazione. Il sistema, insomma, estende automaticamente a tutti i membri i benefici concessi anche solo a uno di essi, al fine di vietare forme di discriminazione, e garantire così il loro pari trattamento.
Questo ha comportato, nel tempo, il “consolidamento” verso il basso dei dazi doganali: l’atto con il quale Trump dispone i dazi, infatti, riconosce candidamente che gli Stati Uniti hanno una aliquota tariffaria media del 3,3%, la Cina del 7,5%, l’Unione europea del 5%, ad esempio.
Quanto poi, specificamente, al principio di reciprocità, invocato da Trump anche se a sproposito, esso rappresenta effettivamente, con le sue peculiarità, un elemento centrale per il sistema commerciale multilaterale: ad esempio, sotto il profilo negoziale, costituisce il parametro giuridico per determinare la “compensazione” dovuta qualora un membro dell’OMC volesse rinegoziare una concessione, e il sistema di risoluzione delle controversie, pur senza farvi riferimento esplicito, lo utilizza come criterio per valutare la congruità di una ritorsione autorizzabile nei confronti di uno stato che non rispetti una decisione degli organi di soluzione delle controversie.
Ora, nel contesto multilaterale tale principio non assume carattere “specifico”, più adatto a rapporti bilaterali nei quali è possibile misurare con una certa precisione un trattamento equivalente, quanto, piuttosto, “diffuso”: esso, cioè, non è da intendersi in termini di perfetta equivalenza tra quanto concesso e quanto ottenuto (non pari “volumi di scambio”, ma equiparabili “opportunità di scambio”).
Il sistema, insomma, non impone agli stati di adottare livelli doganali identici tra loro, ma solo di non discriminare tra i vari paesi: quindi l’adozione di tassi doganali più elevati e distinti in danno di alcuni paesi, in assenza di violazioni da questo commesse, è, in linea di principio, vietata dalle norme del sistema commerciale multilaterale.
I calcoli di Trump
Ebbene, l’ordine esecutivo di Trump procede a calcolare il valore del dazio concretamente imposto a ogni singolo paese attraverso una frazione il cui numeratore è rappresentato dal surplus della bilancia commerciale (la differenza tra il valore delle importazioni dal Paese estero agli USA e quello delle esportazioni da questi ultimi verso il primo) e il cui denominatore rappresenta il valore delle esportazioni dagli USA al Paese in questione.
Il valore che ne risulta, ridotto della metà (e questo perché, nelle intenzioni di Trump gli USA non intenderebbero essere troppo severi...), è il dazio doganale applicato ad ogni Paese: i valori così calcolati però sono molto alti (arrivando finanche al 100%) e non coincidono in alcun modo con il valore dei dazi applicati dai Paesi “sanzionati” sui prodotti USA. Si pensi al fatto che esso, per l’UE, ammonta al 40% (e infatti il dazio applicato è del 20%), mentre lo stesso documento di Trump ammette che il valore dei dazi applicati in UE ai prodotti USA è, in media, del 5%.
Ciò avviene perché il calcolo mira, evidentemente, a “punire” un Paese solo perché esporta negli USA più di quanto importi da loro, e tutto ciò indipendentemente dal valore del dazio doganale che questo adotta nei confronti dei prodotti statunitensi che, per assurdo, in un calcolo siffatto, potrebbe essere anche molto basso e irrilevante.
Il procedimento adottato, in buona sostanza, somma ed equipara ingiustificatamente misure molto eterogenee e soggette a discipline giuridiche differenti e senza valutarne in alcun modo la legittimità, come i dazi, le misure di restrizione quantitativa, le barriere tecniche agli scambi, le misure di restrizione delle esportazioni eventualmente adottate per tutelare la salute e, per quanto riguarda l’UE, addirittura l’Iva che, è il caso di ricordare, non ha alcuna portata discriminatoria nei confronti dei Paesi terzi, e tanto meno dei soli USA, essendo applicata non solo ai prodotti che arrivano da fuori UE, ma anche quelli intracomunitari.
Per cercare di giustificare questa equiparazione, del tutto arbitraria e incompatibile con obblighi internazionali e immediatamente contestata dagli osservatori più attenti sui social, l’Ufficio del Trade Representative statunitense, ha pubblicato un rapporto in cui, in maniera veramente surreale, chiarisce che, se è vero che al numeratore della frazione è indicato il surplus, e al denominatore il valore delle esportazioni, per tenere in considerazione l’“elasticità” di quest’ultimo, esso viene moltiplicato per due fattori, 0, 25 (cioè ¼) e 4.
Che fa uno!
E, come è del tutto noto, moltiplicare un numero per uno non lo modifica affatto…
Peraltro va segnalato che negli stessi USA, e anche in seno al partito repubblicano, si registrano voci di dissenso rispetto a questa gestione della materia doganale: i senatori Chuck Grassley (R) e Maria Cantwell (D) hanno presentato una proposta di legge bipartisan per riaffermare l'autorità del Congresso sulle tariffe, la quale, se approvata, richiederebbe al Presidente di notificare al Congresso entro 48 ore dalla loro imposizione le nuove tariffe, che decadrebbero in assenza di approvazione entro 60 giorni.
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