La storia dell’ufficiale delle SS è raccontata da Antonio Iovane in Il Carnefice (Mondadori): 440 pagine nelle quali sfila la Grande Storia nei suoi dettagli meno scavati. Due scoop: il ministro Scelba favoreggiatore e la prova della presenza del nazista al rastrellamento del Ghetto
Non è mai troppo tardi per fissare, una volta per tutte, quanto accadde in via Rasella il 23 marzo 1944. Cioè l’azione dei partigiani contro i militari tedeschi del battaglione Bozen nella Roma occupata. Ma soprattutto quanto accadde il giorno dopo (quindi a poche ore di distanza) alle Fosse Ardeatine. Cioè l’eccidio di 335 italiani: cinque in più (per errore) di quanti avrebbero dovuto essere per rappresaglia, dieci per ogni tedesco ucciso.
Ancora di più, andrebbe fissata una circostanza che in tutti questi decenni è stata agitata per additare proprio la Resistenza romana come responsabile ultima di quel massacro di connazionali, rastrellati nelle carceri ma anche tra la popolazione ebraica della capitale: il fatto cioè che gli attentatori dei Gap non si siano presentati ai tedeschi per evitare la rappresaglia.
Una balla che perdura ciclicamente e che non fa i conti, banalmente, con il comunicato dell’Agenzia Stefani pubblicato dai giornali (Il Messaggero e La Stampa) solo il 25 marzo, cioè a cose fatte, in cui si dava succintamente notizia dell’attentato, dicendo che la «vile imboscata» era stata opera di «comunisti badogliani», ipotizzando un incitamento da parte degli alleati, assicurando che le indagini erano in corso e che la cooperazione italo-tedesca «nuovamente affermata» non andava sabotata «impunemente».
Poi il capoverso finale: «Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco assassinato, dieci criminali comunisti badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito». Ordine già eseguito. Eppure quanti ancora pensano che quella tremenda rappresaglia si sarebbe potuta evitare? Quanti ancora sono vittima di una narrazione che, partita ovviamente da destra, lì poi non si è mai fermata? Il caparbio tentativo di delegittimare la Resistenza tanto deve alle riletture della vicenda di via Rasella.
Le falsità
Eppure già il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante supremo delle forze tedesche in Italia, quando venne processato a Venezia nel 1947 da un tribunale militare britannico (e condannato a morte, pena poi commutata) ammise che nessun manifesto venne mai affisso dai nazisti per chiedere ai partigiani di consegnarsi.
Occorre partire sempre da qui, per ripercorrere quelle pagine di storia che Antonio Iovane restituisce in Il carnefice, uscito per Mondadori. Dove protagonista, come da sottotitolo, è la Storia di Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine. Sono 440 pagine che si leggono di slancio, anche se già si sa come la storia va a finire. Il che in questo caso è comunque vero solo fino a un certo punto. E comunque qualche registratina alle viti della memoria va sempre data. A proposito dei manifesti di cui sopra, per dire, nel 2013 anche Pippo Baudo in tv avallò il contrario.
È per questo che vanno fissate le parole dello storico Alessandro Portelli (suo nel 1999 il fondamentale saggio L’ordine è già stato eseguito), che opportunamente intervistato dall’autore parla di una destra «ossessionata da questa storia»: «Da una parte perché la falsa narrazione gli permette di mettere in discussione la guerra di liberazione, dare la colpa ai partigiani delle Fosse Ardeatine è un modo per smontare la oralità della Resistenza. Dall’altra io credo che quello che è veramente successo je rode. Cioè, io sono convinto che una delle ragioni per cui non riescono a fare i conti con quello che è successo è che se ne vergognano».
Dettagli e documentazione
Iovane, romano del 1974, è giornalista del Gruppo Gedi, specializzato in podcast d’inchiesta. E anche in questo libro, come nei precedenti La seduta spiritica (sul celebre episodio di Gradoli/via Gradoli del sequestro Moro) e Un uomo solo (sulle ultime ore di Luigi Tenco), si muove con sapienza sul doppio registro della narrazione romanzesca e della ricostruzione storica. Perché Il carnefice è sostanzialmente una biografia che si dispiega tra due continenti: l’Europa squassata dalla Seconda guerra mondiale, con Roma ovviamente in primo piano, e il Sudamerica in cui Priebke e tanti altri ex nazisti trovarono riparo più o meno fortunosamente, ricostruendosi una vita lontano dalle aule di giustizia. Che nel suo caso tornò a bussare in maniera del tutto rocambolesca, grazie a dei giornalisti statunitensi, che lo rintracciarono ai piedi delle Ande a mezzo secolo dai fatti.
La vita militare di Priebke e la sua fuga sono quindi raccontate nei dettagli, così come via Rasella e l’eccidio delle Ardeatine. E naturalmente il processo che lo vide imputato a Roma nel 1996: straordinaria per intensità è qui la ricostruzione delle lunghe ore dopo la sua clamorosa assoluzione (poi annullata in Cassazione, che rimandò a un nuovo processo in cui fu condannato), con il racconto dell’escamotage giuridico (dovette farsi largo in persona l’allora ministro della Giustizia Flick) per venire a capo dell’assedio al Tribunale militare da parte dei familiari delle vittime e della Comunità ebraica.
Davanti agli occhi sfila la Grande Storia anche nei suoi dettagli meno scavati: spunta ad esempio, ed è uno scoop, il nome del ministro dell’Interno Mario Scelba come favoreggiatore di “esfiltrazioni” di criminali nazisti. Oppure, altra novità fin qui mai emersa, la presenza di Priebke a Roma durante il rastrellamento del ghetto nel 1943, da lui sempre negata ma ora dimostrata grazie a un documento scovato da Iovane all’archivio di Stato di Bolzano: proprio in Alto Adige Priebke aveva infatti sempre sostenuto di trovarsi in quei giorni con la famiglia, trasferitasi a Vipiteno per sfuggire ai bombardamenti della capitale.
Le Fosse Ardeatine
Due delle vittime delle Ardeatine le uccise lui. E a processo, dopo una difficoltosa estradizione, Priebke pronunciò queste parole: «Sento, dal profondo del cuore, il bisogno di esprimere le mie condoglianze per il dolore dei parenti delle vittime delle Fosse Ardeatine. Come credente non ho mai dimenticato questo tragico fatto, per me l’ordine di partecipare all’azione fu una grande tragedia intima. Io penso ai morti con venerazione e mi sento unito ai vivi nel loro dolore». È una frase che ripeté anche in un video testamento che oggi, dopo esserlo stato a lungo, su YouTube non è più consultabile. E nel quale rivendicava comunque con orgoglio il proprio passato (oltre a negare l’Olocausto).
Erich Priebke è morto a cent’anni a Roma, l’11 ottobre 2013, nell’abitazione in cui scontava l’ergastolo ai domiciliari. Al suo funerale puntuali avvennero disordini, tanto che il luogo in cui la sua salma è stata sepolta è a tutt’oggi segreto di Stato, per evitare raduni di nostalgici. Si tratta comunque del cimitero di un ex carcere su un’isola, probabilmente Pianosa. E scrive Iovane: «Una croce di ferro sbilenca su due piccole basi di granito serve a segnare le coordinate più che a consacrare, pareti alte che delimitano il cimitero di questo carcere, mai la località dovrà essere rivelata affinché non ci siano culti, picchetti d’onore, celebrazioni e commemorazioni, e nessuno, nessuno possa piangere, nessuno onorare, nessuno rendere omaggio, nessuno portare fiori, nessuno pregare, nessuno inneggiare, nessuno vegliare, nessuno».
L’autore
Non si sa dire se oggi suscitino maggiore sdegno i cinquant’anni di placida esistenza del capitano Priebke in Argentina oppure le robuste protezioni di cui godettero allora lui, Mengele, Eichmann e tanti altri. Certo, anche l’evasione dell’ex Obersturmbannführer delle SS Herbert Kappler dall’ospedale militare del Celio nel 1977 (puntualmente rievocata) va messa nel mazzo, in questo caso della vergogna nazionale. Per non parlare dell’incubo della prigione di via Tasso, dove proprio Priebke spadroneggiava. E già tutto questo narrare basterebbe da sé. C’è però anche dell’altro. Perché dietro a ogni libro del genere c’è sempre anche una personalissima ossessione dell’autore.
E nel caso di Iovane se ne tocca con mano lo spessore nelle pagine che dedica alle vittime, alle loro storie personali, per non parlare delle descrizioni dell’orrore che si scoprì nel fondo delle Ardeatine quando vennero riesumate le salme. L’ossessione ha però ragioni anche biografiche, che affondano le proprie radici nei vent’anni dell’autore. E il lettore le scoprirà passando via via da Roma città aperta a Vipiteno, dal porto di Genova a Buenos Aires, fino a San Carlos de Bariloche: squarci in cui Iovane si mette a nudo in maniera anche sorprendente, così come nel racconto dei propri incontri con quella comunità che, per ferite personali, ha fatto della memoria delle Fosse Ardeatine la cifra della propria esistenza.
Il nome di Priebke è risuonato in un lungo servizio di 100 minuti su La7, quando Andrea Palladino ha rievocato i giorni in cui da detenuto, grazie a un permesso, il carnefice fu ospitato da un ex commilitone nazista (criminale di guerra impunito) sulle rive del lago Maggiore, dove guarda caso prospera una fiorente comunità neofascista. È proprio vero che l’erba cattiva non muore mai.
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