La destra, da quando è entrata a Palazzo Chigi, sta provando a indebolire pezzo a pezzo i pilastri su cui si sostiene la nostra democrazia liberale, che oggi è in crisi. Chi fa finta che non lo sia non solo è miope, ma è complice
Le democrature, neologismo ossimorico attribuito da molti allo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, hanno tutte una caratteristica tipica: sono regimi politici che sembrano funzionare con le regole formali delle democrazie, ma che i governanti deformano – con i comportamenti e con nuove leggi – fino a trasformarli in regimi autoritari de facto, come avviene in Turchia, in Russia o nell’Ungheria di Viktor Orbán.
Questo giornale, insieme a pochi altri media, da quando la destra è entrata a Palazzo Chigi ha cercato di accendere un faro sulle svolte normative che rischiano di trasformare il nostro paese non in una improbabile dittatura di stampo novecentesco, ma in un ircocervo illiberale svuotato dei principi su cui si fonda la Costituzione.
L’ex missina Giorgia Meloni, insieme a Matteo Salvini e agli estremisti che compongono gran parte della maggioranza, fin dall’inizio del mandato sta scientemente portando avanti un’operazione politica chiara. Che è quella di indebolire pezzo a pezzo i pilastri su cui si sostiene la nostra democrazia.
Prima delegittimando i poteri teoricamente autonomi (in primis la magistratura, di cui si vuole la sottomissione all’esecutivo), poi attaccando la stampa critica, infine tentando di eliminare (vedi la riforma del premierato) quei contrappesi istituzionali necessari al check and balance, da Montesquieu in poi essenziale per arginare tendenze assolutistiche e proteggere la libertà dei cittadini.
Il disegno di legge sulla Sicurezza è un tassello non banale della progressione reazionaria con cui l’esecutivo prova a cambiare il tessuto politico e sociale italiano, ed è una buona notizia che il Pd e parte delle opposizioni abbiano aderito compatte alla manifestazione di Cgil e Uil davanti al Senato, che presto potrebbe approvare in via definitiva uno dei provvedimenti più intolleranti presentati finora dal governo. Incentrato sul peggiore populismo penale, sulla criminalizzazione del dissenso e della contestazione politica, sulla delegittimazione degli ultimi e dei bisognosi, in primis poveri e migranti.
Le nuove misure previste sono diverse, e colpiscono ad hoc non comportamenti gravi che mettono davvero in pericolo la sicurezza dei cittadini, ma singoli e soggetti collettivi che i postfascisti sembrano considerare dei veri e propri “nemici” della patria: si va dalle madri di etnia rom (da anni le villain dei talk-show spazzatura di Rete 4), che per il ddl potranno andare in carcere insieme ai figli anche se minori di tre anni, fino ai migranti che osano protestare dentro i centri di accoglienza: per loro fino a cinque anni di reclusione, anche in caso di semplice «resistenza passiva».
Per loro il governo ha introdotto un’altra norma marcatamente razzista, e foriera di altri disagi per i disperati: gli stranieri senza permesso di soggiorno subiranno restrizioni per l’acquisto di sim telefoniche, fondamentali per comunicare con i loro cari e i loro avvocati.
Altri punti della norma servono poi a codificare nuovi reati, con l’obiettivo implicito di ridurre gli spazi di dissenso. E soprattutto veicolare nell’opinione pubblica l’idea che il solo fatto di protestare in piazza è atto deprecabile da stigmatizzare, anche se attuato in modo pacifico. La legge prevede infatti il carcere per chi contesta le opere pubbliche (come il Ponte di Messina e la Tav) o chi usa l’arma non violenta dei blocchi stradali, una pratica resa celebre dagli ambientalisti di Ultima generazione per sensibilizzare sulla catastrofe climatica in cui il pianeta si sta avvitando.
In questa postura muscolare, che come il decreto Cutro e quello su Caivano serve ad accarezzare la pancia securitaria dell’elettorato e a distrarre dai fallimenti sulle materie sensibili, non poteva mancare l’attacco ai detenuti: invece di provare a migliorare le condizioni inumane in cui versano le carceri, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario meloniano Andrea Delmastro, già a processo per rivelazione di segreto e grande sponsor del pistolero Pozzolo, hanno spinto per l’introduzione del reato di “rivolta penitenziaria”. Fattispecie che incrimina anche coloro che fanno atti di resistenza passiva davanti agli “ordini” (almeno legittimi?) della polizia penitenziaria.
Forte con i deboli, sodale con i forti: se da un lato si aboliscono i reati dei colletti bianchi, con il ddl si colpisce al cuore il dissenso democratico, o comportamenti che spesso nascono da fattori di disagio, degrado e marginalità. Che per essere affrontati e risolti avrebbero bisogno non di manette e punizioni, ma di veri investimenti nel sociale, sul lavoro, sulla lotta alle disuguaglianze.
La strada scelta del governo è diversa, e rischia davvero – come evidenzia un rapporto commissionato dall’Ocse – di «minare i principi fondamentali della giustizia penale e dello stato di diritto». La democrazia liberale in Italia è in crisi, e chi fa finta che non lo sia non solo è miope. Ma è complice.
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