O Salvini chiude la querelle dimostrando che è in possesso delle immagini di Apostolico a buon diritto, o ci troviamo davanti a uno scandalo gemello a quello che ha coinvolto il sottosegretario Andrea Delmastro e Giovanni Donzelli
La vicenda del video che immortala la giudice di Catania Iolanda Apostolico, pubblicato sui social dal ministro Matteo Salvini come prova inconfutabile della parzialità della magistrata che ha smontato con una sentenza il decreto Cutro, si presta a due letture differenti. Entrambe interrogano su questioni rilevanti della vita pubblica del paese.
La destra evidenzia la gravità del comportamento di chi, presenziando a una manifestazione anti governativa del 2018, rischia di minare non solo la sua credibilità personale, ma il prestigio dell’istituzione giudiziaria. Chiedendone addirittura le dimissioni. Altri giuristi spiegano al contrario che la Costituzione prevede il diritto di ogni cittadino di partecipare a eventi pubblici o esprimere libere opinioni, senza per questo dover temere censure di sorta.
Ragionamento sacrosanto ma irrilevante per coloro che sono convinti che chi esercita il potere giudiziario debba non solo essere, ma anche apparire imparziale di fronte all’opinione pubblica: per non prestare il fianco a polemiche strumentali Apostolico avrebbe dunque fatto meglio a non scendere in piazza contro le decisioni – pur aberranti – dell’ex ministro dell’Interno che teneva ostaggio in mare i migranti rinchiusi nella nave Diciotti.
Detto questo, la polemica alimentata dalla destra è solo il “dito” della vicenda. Un de cuius rispetto alla “luna”, all’enormità che potrebbe palesarsi se i sospetti dovessero essere confermati da nuove evidenze. Il leader leghista non ha infatti chiarito come, e soprattutto da chi, ha ricevuto il materiale finora inedito da lui usato per aggredire un giudice che ha bocciato un provvedimento di un governo di cui fa parte.
Secondo le ricostruzioni di Domani, Repubblica, Il Fatto e altri media, le prime evidenze lasciano supporre che il filmato sia stato girato da un agente in borghese, posizionato dietro i colleghi che presidiavano la piazza in assetto antisommossa.
Intendiamoci. Le registrazioni (della Digos, dei carabinieri o di altri reparti) sono antica consuetudine delle forze dell’ordine: servono a identificare eventuali agitatori o soggetti pericolosi, operazioni conformi alla legge. Ma talvolta occorrono anche a schedare – azione assai più discutibile – chiunque partecipi a manifestazioni di protesta.
In nessun caso, però, è accettabile che materiale girato da servitori dello stato finisca a cinque anni di distanza nelle mani di un ministro della Repubblica che lo sfrutta per azioni di propaganda che puzzano di dossieraggio. Dunque, delle due l’una: o Salvini chiude la querelle dimostrando che è in possesso delle immagini di Apostolico a buon diritto, o ci troviamo davanti a uno scandalo gemello di quello che ha coinvolto il sottosegretario Andrea Delmastro e Giovanni Donzelli.
Qualche mese fa il vice del ministro dell’Interno Piantedosi aveva consegnato al collega di partito intercettazioni riservate dell’anarchico Alfredo Cospito carpite dalla polizia penitenziaria, in modo che il meloniano potesse declamarle in parlamento con il solo fine di attaccare le opposizioni. Informazioni sensibili ottenute dal potere esecutivo trasformate in frecce avvelenate contro gli avversari politici: al netto di cascami penali (Delmastro è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio e rischia ora il rinvio a giudizio) l’azione sembra simile a quelle organizzate nelle democrature sudamericane.
Tireremmo tutti un sospiro di sollievo se il capo del Carroccio, ex numero uno del Viminale e dunque con ottime entrature negli apparati di polizia, rivelasse che stavolta ha trovato le immagini in rete, nel fascicolo dell’inchiesta che lo vede imputato sulla Diciotti, o grazie a un cronista che filmava la scena. In caso contrario, resterebbe l’odioso sospetto che rappresentanti dello stato abbiano consegnato filmati d’archivio a un ministro per attaccare un giudice considerato ostile all’esecutivo. Un atto che profuma di eversione.
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