Harris ha attaccato Trump con parole di fuoco sull’aborto. Ma non è necessario tornare allo stato del Missouri del 1986 per sentir dire che «l’aborto non è un diritto accettabile neppure in caso di stupro». Basta frequentare le autorevoli aule della Camera dei deputati
«Ci sono donne incinte che soffrono di aborti spontanei a cui viene negata assistenza in pronto soccorso perché gli operatori sanitari hanno paura. Mentre una donna sanguina in un parcheggio».
Questa volta partiamo dal presente, ovvero dalle parole infuocate che la candidata dem Kamala Harris ha sbattuto in faccia a Donald Trump nel confronto tv trasmesso dalla Abc. La crudele verità di «ragazzine di 12 anni, vittime di incesto e abusi, costrette a porte a termine una gravidanza», da quando una maggioranza di giudici della Corte suprema (tre dei quali nominati dall’ex presidente degli Stati Uniti) hanno ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade, che il 22 gennaio 1973 legalizzava l’aborto a livello federale.
Roe v. Wade
Tutto ha inizio nel 1973 quando una donna di nome Norma McCorvey (Jane Roe lo pseudonimo per garantirle l’anonimato) si presenta davanti alla Corte suprema americana e pretende dal procuratore distrettuale Henry Wade di interrompere una gravidanza a seguito di stupro. Norma (che a 16 anni ha spostato un uomo violento e ha già partorito due figli) deve sottostare alle leggi del Texas che concede l’aborto solo se la salute della madre è a rischio.
Peccato che il giudizio, nel suo caso, arriverà solo al termine di quella gravidanza odiata, frutto della brutalità di un uomo che non ama più. La democrazia ha il potere (quando vuole) di rendere giustizia ai cittadini, specialmente quando questi sono vittime di abusi. Ma nell’America degli anni Settanta questo diritto non appartiene alle donne.
Senza contare che in materia di aborto ogni stato ha la sua legislazione e che (nemmeno fossimo ai tempi dei padri pellegrini) ben 30 stati lo considerano un delitto (ad esclusione della California che dal 1967 ha reso Los Angeles meta di pellegrinaggio per tutte quelle donne che non vogliono morire con un ferro da calza nell’utero).
Nel 1971 balza alle cronache il caso di Shirley Wheeler, condannata per omicidio colposo dopo che lo staff medico di un ospedale della Florida la denuncia per “aborto illegale”. Certo, in quegli anni i gruppi femministi sono ancora capaci di pretendere attenzione dall’opinione pubblica e grazie alla mobilitazione della Women’s National Abortion Action Coalition la condanna di Wheeler viene revocata dalla Corte Suprema della Florida. Basandosi su un’interpretazione del XIV emendamento della Costituzione, cioè sul diritto alla libera scelta quando si tratta della sfera intima di una persona, la Corte suprema ha alla fine legalizzato l’aborto, dichiarando la legge texana incostituzionale.
Il Missouri e Roma
Ma non è stata una favola a lieto fine, verrebbe da dire, se negli stati a maggioranza repubblicana tornano leggi restrittive (con la proibizione di abortire addirittura dopo le sei settimane di gravidanza). Perché se hai dentro di te un figlio e non più un feto, è lo stato a definire i confini della tua libertà. Pensare che persino in Italia siamo più elastici, dal momento che se a una donna capita la disgrazia di partorire un figlio nato morto (e per puro errore medico) la legge parla di feto e non di un bambino, anche se si è superato il settimo mese di gravidanza. Ad essere messe in croce, comunque vada, sono sempre le donne. Soprattutto quando mostrano il pancione.
Se lo ricordava bene il direttore dell’Espresso Livio Zanetti, denunciato per vilipendio alla religione per aver fatto pubblicare in copertina la foto di una donna incinta, completamente nuda, crocifissa come Gesù. «Non godo quando faccio il raschiamento». Se tornassimo indietro nel tempo al 6 dicembre 1975, avremmo il piacere di leggere, senza troppi pudori, un manifesto del Movimento di liberazione della donna, accolto in piazza a Roma a suon di arresti e cariche violente della polizia. Attese troppo lunghe, reparti insufficienti negli ospedali pubblici, file interminabili di donne che cercano di ottenere una visita nei consultori, prima che scada il tempo per poter procedere con l’intervento (non di rado boicottate da medici obiettori di coscienza).
Non è necessario tornare allo stato del Missouri del 1986 per sentir dire che «l’aborto non è un diritto accettabile neppure in caso di stupro». Basta frequentare le autorevoli aule del parlamento. E forse a qualche parlamentare smemorato si potrebbe consigliare la visione delle mitiche teche Rai.
Ad esempio, un bel servizio trasmesso da Palermo nel 1973 su una donna di 36 anni, già madre di tre figli, in lotta contro la morte per un aborto clandestino praticato con una sonda improvvisata. Ad andare in carcere per il reato di “procurato aborto”, secondo la magistratura, non sarebbe stata solo l’ostetrica ma (nel caso fosse sopravvissuta) anche la sfortunata donna, finita in terapia intensiva dopo l’asportazione dell’utero.
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