Ci sono almeno tre spiegazioni possibili della decisione di Joe Biden di tornare ad alzare la soglia del sostegno statunitense all’Ucraina, autorizzando l’uso di missili Atacms a corto raggio contro bersagli anche all’interno del territorio russo. Tre spiegazioni tra loro non necessariamente esclusive e per certi aspetti, anzi, potenzialmente complementari.

La prima è strettamente operativa. La resistenza ucraina appare in difficoltà; l’arrivo dei soldati nordcoreani e la capacità apparentemente infinita della Russia di sopportare un altissimo numero di perdite pare avere messo in un angolo un esercito, quello di Kiev, strutturalmente svantaggiato in una lunga guerra di attrito con un avversario superiore in termini di capacità militari e, soprattutto, di uomini da sacrificare. I missili americani servono quindi per ripristinare un minimo di equilibrio sul campo, compensando queste debolezze ucraine e rendendo più difficile il trasferimento di materiali militari verso le truppe russe.

La seconda spiegazione rimanda invece alla dimensione diplomatica. Biden sa che si sta progressivamente esaurendo il capitale politico che aveva permesso per due anni e mezzo il massiccio appoggio militare ed economico all’Ucraina. L’ampio sostegno bipartisan a questa linea è progressivamente venuto meno; i sondaggi ci dicono che una larga maggioranza di elettori repubblicani e un numero crescente di quelli democratici chiedono oggi di porre termine alla politica di aiuti all’Ucraina dell’ultimo biennio.

Dal 20 gennaio ci sarà una nuova amministrazione a Washington, che s’insedia promettendo di rispondere alle sollecitazioni dell’opinione pubblica e di cercare un qualche compromesso con Putin. Quest’ultimo rilancio di Biden può quindi essere letto come propedeutico al negoziato che inevitabilmente verrà: funzionale cioè a preservare una situazione sul terreno non sfavorevole all’Ucraina e a evitare che nelle trattative si parta da una condizione di svantaggio e debolezza.

Strettamente legata a questa è la terza possibile chiave di lettura, che invece è tutta politica. Biden agisce anche per condizionare quel che farà il suo successore. Non per fargli uno sgambetto, come sostengono taluni. Ma per creare una condizione che ne costringa la libertà d’azione in futuri negoziati o, appunto, che gli consegni un quadro nel quale la posizione negoziale dell’alleato ucraino non sia compromessa dall’andamento delle operazioni belliche.

Le incognite, come sempre in queste circostanze, sono estremamente elevate.

Mosca procede a un’ulteriore revisione della sua dottrina nucleare e dei criteri per fare eventualmente uso di armi tattiche di teatro.

Può darsi che come in passato si tratti di un bluff, anche se la logica della deterrenza nucleare prevede che la credibilità, imprescindibile, del deterrente non possa essere sfidata impunemente e a lungo. Si resta per il momento nell’ambito della retorica e, anche, della propaganda, ma si assiste comunque a una nuova tappa dell’abbandono di quel “tabù nucleare” che per decenni le grandi potenze avevano più o meno internalizzato.

Mosca minaccia inoltre rappresaglie che potrebbero arrivare immediatamente, anche in forma di attacchi missilistici su centri abitati e obiettivi civili. Il rischio che il conflitto vada fuori controllo torna insomma ad aumentare.

Nessuno lo vuole, ma la storia insegna che le escalation possono scattare anche quando le parti in causa non lo cercano o auspicano. Fraintendimenti, cattive comunicazioni, necessità di risultare credibili mettendo in asse parole e atti, l’inevitabile meccanismo di azione e reazione che iniziative militari spesso ingenerano: tutti questi fattori possono contribuire a innescare una spirale viziosa dalla quale poi è complicatissimo uscire. Esistono, sì, le escalation controllate e pilotate; ma più durano e s’intensificano, maggiore è il rischio che sfuggano al controllo dei contendenti.

Ancor più nel mezzo di una complessa transizione dei poteri negli Stati Uniti, che contribuisce anch’essa ad intensificare volatilità e pericoli.

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