I consiglieri e alleati più stretti di Donald Trump non hanno preso bene l’ondata di nuovi armamenti e autorizzazioni a colpire che l’amministrazione Biden ha disposto per rispondere all’escalation militare voluta dalla Russia.

Dopo una nuova fornitura di missili, il personale americano inviato per la manutenzione degli F-16, l’autorizzazione a usare armi americane per colpire in profondità nel territorio russo, ieri è arrivata anche la notizia della fornitura di mine anti uomo, che serviranno all’esercito di Kiev per rallentare le truppe di terra nella stagione del fango e della neve. Per farlo l’amministrazione ha rovesciato un suo precedente divieto che aveva promesso di non mettere in discussione.

Come ha ricordato il portavoce del dipartimento di Stato, il presidente non è in carica per 3 anni e 10 mesi: fino all’ultimo giorno alla Casa Bianca ha il diritto di fare le sue scelte, anche se sono in contrasto con la linea di chi verrà dopo. E Biden le sta evidentemente facendo.

Per un carotaggio dell’umore della parte più estrema e aggressiva del mondo di Trump su questo tema bisogna sondare Donald Trump jr, il primogenito del presidente eletto, quello che diceva a Zelensky che presto gli toglieranno la paghetta. È stato fra i primi a rispondere alle manovre di Biden, per dare la nota al coro degli intransigenti.

«Pare che il complesso militare-industriale voglia assicurarsi di avere una terza guerra mondiale prima che mio padre abbia la possibilità di creare la pace e salvare vite», ha scritto. La deputata Marjorie Taylor Greene, altra oltranzista trumpiana e seguace di prima generazione della setta complottista QAnon, si è immediatamente accodata: «Il popolo americano si è espresso il 5 novembre proprio contro queste decisioni e non vuole finanziare o combattere guerre all’estero. Vogliamo sistemare i nostri problemi».

Sono queste le voci che esprimono un sentimento di sostanziale avversione al finanziamento senza limiti al conflitto ucraino – sentimento venato talvolta di esplicita ammirazione per la Russia di Putin – diffuso nella base elettorale di Trump e che si manifesta nella scelta di alcune figure chiave della prossima amministrazione, fra tutte Tulsi Gabbard, che per la gioia del Cremlino guiderà l’intelligence. Ma non tutto il fronte trumpiano la vede allo stesso modo.

Opportunità

La corsa dell’amministrazione democratica per armare Kiev prima che il nuovo governo cambi linea è un ostacolo per Trump. Ma offre anche un’opportunità.

A conti fatti, durante la campagna elettorale è stato trumpianamente ambiguo e contraddittorio sulla linea che terrà verso Kiev. Ha detto, come noto, che farà cessare la guerra nel giro di 24 ore dal suo insediamento, ha criticato i finanziamenti americani allo sforzo bellico, ma ha anche detto che vuole aiutare Zelensky, per almeno due ragioni dichiarate: è il «più grande venditore della terra» e perché «si sente male per quelle persone», cioè il popolo ucraino.

Cosa tutto questo significhi in termini di decisioni non si sa. Il vicepresidente eletto, JD Vance, è entrato di più nei dettagli, descrivendo la spartizione territoriale e la zona demilitarizzata con un vincolo di non far accedere l’Ucraina alla Nato né in altre alleanze difensive, tutte questioni che fanno presagire un assetto di pace gradito a Vladimir Putin. Per parte sua, il Cremlino un giorno esalta l’avvento di Trump e il giorno successivo fa sapere che le millanterie sull’istantaneo accordo trovato dall’artista del “deal” vivono solo «nel regno della fantasia».

Se quindi l’accelerazione di Biden sull’Ucraina non quadra con il cambio di postura soltanto evocato, può offrire un po’ di tempo e copertura a un’amministrazione che non solo non ha spiegato in che modo affronterà il dossier, ma molto probabilmente non lo sa nemmeno, ed è occupata a gestire voci e sensibilità discordanti. In questo quadro, i Don jr interpretano la sensibilità più antiucraina e antieuropea. Mandarli avanti e amplificarli mentre Biden offre nuove armi in tutta fretta a Kiev rassicura l’elettorato che ha votato Trump come presidente anti guerra. Il resto si vedrà dopo l’insediamento.

Il nodo della Nato

Seppure perso in una nebbia di idee confuse, Trump sa che non sarà facile, automatico o rapido tagliare fondi e chiudere rubinetti verso Kiev, anche avendo la volontà politica e i numeri al Congresso per farlo. Deve perciò prepararsi a vari scenari più sfumati in cui anche i suoi istinti più filorussi dovranno essere temperati con compromessi ragionevoli. Esagerare l’animosità verso Zelensky potrebbe quindi essere parte di una strategia negoziale in cui la minaccia di un cambiamento profondo offre campo per una soluzione intermedia.

Se si accetta questo schema, anche l’attivismo di Biden nella coda della sua presidenza può diventare un asset. Passare da un impegno totale e senza limiti verso Kiev a una posizione più moderata può far apparire il cambiamento di linea più forte di quel che è nei fatti, abbastanza per soddisfare la base che chiede cambiamenti radicali.

Fra i nodi principali nella prospettiva negoziale c’è quello dell’ingresso nella Nato, ipotesi che l’Ucraina e gli alleati europei considerano inevitabile e l’amministrazione Trump mette radicalmente in discussione, nella convinzione che sia il punto su cui fare leva per trovare un accordo con la Russia.

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