Sono così preoccupato dalle scelte trumpiane sui dazi da temerne non solo le conseguenze economiche, ma soprattutto quelle culturali.

Innanzitutto mi colpisce l’angoscia di molti analisti che ripropongono una tesi classica: se il commercio globale va in crisi, ciò che lo potrà sostituire sarà solo la guerra. Idea che risale al celebre doux commerce di Montesquieu. Il commercio addolcisce i costumi e civilizza i comportamenti, prendendo il posto della violenza. I confini del commercio sarebbero i confini della guerra. Così riproponiamo lo stesso timore: se viene meno lo scudo del commercio, ritorna la guerra su scala mondiale.

Non voglio in queste poche righe decostruire questo timore – che mi pare più irrazionale e quasi mitico che reale. È però abbastanza evidente che la fase storica che noi definiamo col termine globalizzazione – che coincide non solo con il generale movimento capitalistico di estensione naturale dei mercati, ma soprattutto con quella fase relativamente recente in cui a questa tendenza espansiva si è affiancato il triplice imperativo di «stabilizzare, privatizzare e liberalizzare» (è una citazione di Rodrik, autore che riprenderemo) – non è stata affatto un’epoca pacificata, ma piuttosto un’epoca di «guerre a bassa intensità». L’utopia del doux commerce si è smontata da sé ben prima dell’arrivo di Trump.

In secondo luogo, mi convince fino a un certo punto la lettura delle scelte di Trump come ciò che decreta la fine della globalizzazione. Trump non è certo un no global. Che il suo intento sia ancora quello di «stabilizzare, privatizzare e liberalizzare» non può essere messo in dubbio. Certo, gli equilibri recenti vengono adesso spazzati via. Ma più che di fine della globalizzazione, parlerei di risistemazione. La globalizzazione si dimostra per ciò che è potenzialmente sempre stata: un’estensione del capitalismo predatorio su scala globale a partire da un principio di concorrenza tra Stati.

E del resto ci sarà un motivo per cui quasi tutti i sovranisti sono di destra. È proprio questa la questione fondamentale: perché è la destra che sta modificando gli equilibri vetusti della globalizzazione?

Io risponderei così: Trump e i suoi epigoni hanno preso atto di una crisi della globalizzazione che era evidente da decenni, e di fronte a cui la sinistra ha scelto colpevolmente di voltare lo sguardo. Il loro obiettivo non è superarla tornando all’equilibrio tra Stati nazione – semplificazione a cui fa comodo credere – ma risistemare l’ordine della globalizzazione. Per capire il senso di questa risistemazione devo tornare alle tesi contenute nel libro di Roddik, La globalizzazione intelligente.

In quel libro si introduceva il «trilemma della globalizzazione». La crisi della globalizzazione deriverebbe dall’inconciliabilità di tre poli istituzionali che non possono funzionare contemporaneamente: globalizzazione economica, politica democratica, Stato nazionale. Secondo Roddik l’unico modo per uscire da questa crisi è sacrificare uno dei tre poli lasciando uniti gli altri due. È chiaro che se la risistemazione dell’ordine globale avviene da destra, essa avrà come obiettivo finale non la cancellazione della globalizzazione economica, ma la sua alleanza con lo Stato nazionale ai danni delle politiche di equità e della democrazia.

Per questo diffido di ogni lettura puramente economicista delle attuali politiche trumpiane. Perché non credo che vi sia da parte sua nessuna ostilità nei confronti del libero movimento dei capitali, della necessità di privatizzare, dell’estensione della liberalizzazione. Quel che lo muove è piuttosto l’idea che tutto questo debba avvenire su base concorrenziale e senza nessun controllo sovranazionale, senza nessun cosmopolitismo politico. Stringendo un nuovo patto tra capitalismo globalizzato e Stati nazione.

Ma se questa alleanza tra globalizzazione e nazionalismi è una soluzione coerentemente proposta dalla destra per uscire dalla crisi degli ultimi decenni, qual è la soluzione che dovrebbe contraddistinguere la sinistra? Seguendo Roddik, la risposta dovrebbe essere facile: prendere atto dell’insufficienza degli Stati nazione e farsi carico di un cosmopolitismo (o più modestamente di un internazionalismo) in grado di estendere democrazia ed equità sociale. Anche la battaglia per l’Europa federale si inscrive dentro questa strategia.

Invece il riflesso condizionato della sinistra sembra essere un anacronistico ritorno a Montesquieu: non è più accettabile che, per timore della guerra, si abbia addirittura nostalgia della globalizzazione. Le cui conseguenze in termini di diseguaglianze, imperialismi economici, instabilità politiche sono ormai un dato consegnato alla storia. Di fronte al cinismo di Trump, la sinistra rischia di uscire con le ossa rotte senza un salto di qualità della propria immaginazione politica.

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