È chiaro fin dal 7 ottobre che, nella guerra asimmetrica, l’unico asso nella manica dei tagliagole di Hamas sono gli ostaggi. Per questo furono rapiti. Il gruppo terrorista era memore di alcuni precedenti che li confortava nella convinzione di avere in mano una formidabile “merce” di scambio quando sarebbe arrivato, perché sarebbe arrivato, il tempo della trattativa. Il soldato Gilad Shalit era l’esempio più eclatante: catturato il 25 giugno 2006, liberato il 18 ottobre 2011 dietro la contropartita di un migliaio di palestinesi detenuti nelle carceri dello Stato ebraico. Israele tratta, era la convinzione, persino per ottenere la restituzione di cadaveri, come quello del pilota Ron Arad o di Eli Cohen, la spia del Mossad per eccellenza (due casi comunque ancora irrisolti).

Figurarsi se non cederà a compromessi davanti a centinaia dei suoi figli. C’è una massima scritta nel Talmud che recita: «Chi salva una vita salva il mondo intero». Non per caso al museo di Yad Vashem vengono definiti “giusti” coloro che si adoperarono per sottrarre migliaia di ebrei alla furia sterminatrice nazista. Nel libro biblico della Genesi un angelo del Signore ferma la mano di Abramo mentre si accinge a sacrificare il figlio Isacco, prova che gli era stata chiesta da Dio per misurare la sua devozione.

La vita precede la fede, verrebbe da commentare. Uscendo dall’ambito propriamente messianico, l’insegnamento religioso si è combinato con un principio più laico. L’antisemitismo ha obbligato le comunità in diaspora a considerare come un bene primario la difesa di ogni loro elemento. La catastrofe della Shoah ha accentuato la convinzione creando “il tabù dei tabù”, osservato e conservato con cura non solo dai politici di Israele, ma dall’intera popolazione.

Se per i leader di Hamas gli ostaggi erano una sorta di salvacondotto, i parenti dei rapiti potevano fidare sulla prassi consueta, un patto non scritto tra governanti e popolo che, da subito, hanno chiesto di rispettare. Vedendo però frustrate le loro aspettative mentre tra morti (molte) e liberazioni (poche) si assottigliava la speranza.

E diventavano sempre più evidenti gli errori di Benjamin Netanyahu, infine bocciato anche dal presidente americano Joe Biden secondo il quale «non fa abbastanza per la tregua», allontanando l’accordo sul rilascio. Netanyahu ha pensato che solo il mostrare i muscoli gli avrebbe riconsegnato il consenso che aveva perduto in patria. Che esibire al pubblico la completa distruzione di Hamas (peraltro impossibile) avrebbe cancellato i mancati sforzi diplomatici per gli ostaggi. E gli avrebbe permesso di non incrinare la stabilità del governo, garantita dalla presenza di due ministri razzisti ed espressione del movimento dei coloni come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, fautori della linea messianica, ormai diventata anche la sua, che prevede la pietra tombale sulla soluzione dei due Stati e un Grande Israele espanso su tutta la Palestina storica tra il Mediterraneo e il Giordano.

Compresa dunque senz’altro la Cisgiordania occupata. E, possibilmente, anche la Striscia di Gaza da riconquistare dopo il ritiro unilaterale deciso dal suo predecessore Ariel Sharon nel 2004 e attuato nel 2005. Non si spiegherebbe altrimenti l’ostinazione con cui difende la presenza dei suoi soldati nel corridoio Filadelfia al confine con l’Egitto, materia del contendere dei mediatori, quando persino i suoi generali negano il valore strategico di quell’arteria.

I sei ostaggi uccisi a sangue freddo da Hamas poco prima che le truppe di Tsahal arrivassero a liberarli, oltre all’ovvio raccapriccio e all’ulteriore conferma della disumanità del gruppo jihadista, sono la cartina di tornasole del tradimento del tabù sul valore della vita dei propri cittadini. La conseguenza sono le manifestazioni oceaniche contro il premier che infiammano le strade di Israele. Niente ritorno degli ostaggi, niente popolarità riguadagnata. E una guerra che dopo undici mesi è assai lontana dall’essere vinta.

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