Nel suo La foglia di fico (Einaudi, 2021), Antonio Pascale racconta la Rivoluzione agricola del Neolitico: gli esseri umani sono passati a una vita stanziale dedita all’agricoltura abbandonando, in parte, la caccia e la raccolta di piante spontanee, facendo un patto col grano. I cereali selvatici si assicurano la riproduzione spezzandosi e così disperdendo il seme. Ma per i primi umani era difficile raccogliere questi semi sparsi. Così, vedendo una varietà mutata che non perdeva il seme, l’hanno selezionata piantandola.

Un patto di mutuo soccorso: a ogni stagione gli umani piantavano una pianta che non sarebbe riuscita a riprodursi da sola, garantendone la sopravvivenza, e la pianta rendeva più facile la raccolta del seme. Le grandi civiltà stanziali della Mezzaluna fertile alle radici della nostra civiltà scaturiscono da un gesto agricolo minimo: piantare una pianta.

La storia piacerebbe al ministro Francesco Lollobrigida, che ne ha raccontato una versione di recente al Meeting di Rimini: l’agricoltura è la vera e migliore modalità di protezione dell’ambiente. Grazie alla manutenzione degli agricoltori abbiamo un ambiente vivibile. Gli agricoltori sono i veri custodi del pianeta Terra.

È una storia del tutto sbagliata, purtroppo. La natura era in equilibrio prima della Rivoluzione agricola e potrebbe esserlo dopo l’estinzione degli umani. Il patto col grano conveniva (forse) agli esseri umani, non è chiaro che convenisse alla natura: per esempio, non conveniva alla varietà di grano selvatica soppiantata dal frumento domesticato. E l’agricoltura, in generale, non è mai convenuta a tutte le specie e gli habitat che sono stati distrutti e cancellati per fare spazio a poche specie e a colture sempre più intensive e di varietà ridotta.

Da quell’iniziale patto col grano (più o meno fra il 7300 e il 5500 a.C.) arriviamo alla cosiddetta Rivoluzione verde: l’agricoltura industriale oggi prevalente, volta solo alla produzione, che immette 3 milioni di tonnellate all’anno di pesticidi chimici nell’ambiente, antropizza circa il 75 per cento degli ambienti, alleva 87 miliardi di animali l’anno, producendo il 14,5 per cento di emissioni di gas serra, riduce la biodiversità agricola talmente tanto che quindici specie di piante sono il 90 per cento del cibo consumato (prendo i dati dal dossier Lipu “Campagne silenziose” 2022 e dal rapporto del 2019 sulla biodiversità dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services del 2019).

Fino a quest’ultima rivoluzione, forse, c’era un equilibrio fra specie domesticate e specie spontanee, un equilibrio in grado di mantenere l’armonia fra umani e non umani. Ma ora l’equilibrio non c’è più. La vecchia storia dell’agricoltore-custode, ammesso che sia mai stata vera, è ormai palesemente falsa.

Si può dire: ma l’agricoltura ha garantito la prosperità degli esseri umani e continuerà a farlo. Tutto sommato, è la vita umana ad aver valore, non la natura selvaggia inerte. Anzi, la natura selvaggia può essere pericolosa per gli umani: per esempio, boschi non curati e instabili possono aumentare i detriti in caso di inondazione, come osserva un altro esponente della stessa parte di Lollobrigida, Guido Castelli, commissario straordinario al Sisma 2016 (su formiche.net).

Ma le inondazioni senza precedenti sono effetto del cambiamento climatico, che è causato dall’azione umana. Dire che boschi curati le attenuerebbero è vero. Ma trascura di porre l’attenzione sullo squilibrio idrogeologico creato dal cambiamento climatico. E comunque l’agricoltura intensiva ha avuto come primo effetto la riduzione della superficie boschiva. Gli umani sono causa del loro male, non sono vittime della natura matrigna.

Inoltre, già dalla Preistoria la rivoluzione agricola non è stata priva di conseguenze nocive per gli esseri umani: gli agricoltori vivevano di meno dei cacciatori-raccoglitori, per via della dieta meno varia e delle conseguenti malattie, malattie aumentate dalla stanzialità, e l’esplosione demografica che ci ha portato alla situazione odierna arriva da lì.

Da quel patto originario si arriva alla crisi ecologica in cui ci troviamo: le comodità della vita agricola e la cultura umana delle grandi civiltà hanno portato, fra le altre cose, al cambiamento climatico e ai rischi che stiamo correndo. Il patto era ambiguo, come dice Pascale. Dobbiamo tornare indietro? No, non vogliamo e non possiamo.

Ma forse dovremmo raccontare storie attendibili, non favole belle del bravo agricoltore custode del giardino del Creato. Forse, dovremmo fare un patto più lungimirante ed equo con la natura, anche nel nostro interesse come specie.

© Riproduzione riservata