Come altri prima di lui, Luca Marinelli ha voluto ribadire la distinzione tra la sua persona e il personaggio della serie tv “M – Il figlio del secolo”, nel bisogno di sottolineare la separatezza ontologica e deontologica tra l’interprete e l’interpretato. Come se dentro la maschera esistesse l’inspiegabile timore di un virus contagioso. L’arte ha proprio il compito di rendere dicibile l’indicibile, far sospettare l’esistenza di due dimensioni; presentare il male nelle sue molteplici forme
Secondo un’antica superstizione di ambito teatrale, l’espressione “The Scottish Play” sostituisce l’indicibile titolo del Macbeth di William Shakespeare: pare che il solo pronunciare quel nome rechi a chi calca le scene dosi massicce di sventura. Allo stesso modo, gli incantesimi, i sortilegi o le evocazioni del diavolo, nonostante la finzione, pare esercitino effetti di realtà con cui dovranno poi vedersela il malcapitato interprete e l’intero cast.
Più di recente, il nome di Benito Mussolini è stato oggetto di un esteso rituale apotropaico, come se chi ne ha fatto rivivere le gesta sullo schermo avesse presto sentito l’esigenza di proteggersi dalla sciagura che il capo del fascismo porta con sé.
A più riprese, Luca Marinelli, protagonista della miniserie televisiva M – Il Figlio del Secolo, ha avvertito l’urgente necessità di manifestare la più netta distanza dalle idee, dai modi e dall’eredità odiosa del dittatore fascista, come se dal delirio mussoliniano dovesse sortire un’improvvisa e incontrollabile malattia da contagio.
Nel suo percorso carminativo a più tappe, Marinelli, contrito, ha rivendicato la sua discendenza da una famiglia di comprovato impegno partigiano e ci ha raccontato dei dubbi, delle esitazioni e delle sofferenze che hanno segnato il suo compromettente sì all’offerta di interpretare il Duce.
Quando Ganz era Hitler
Questo fare superstizioso, che esige affettatissimi autodafé, eccede la vicenda Marinelli. Tra i casi più noti c’è quello di Bruno Ganz, che confessò di aver nutrito molti dubbi sull’offerta di recitare la parte di Hitler in La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler. Come Marinelli, Ganz si preoccupava della possibile, inavvertita infiltrazione dei mostruosi archetipi nazionalsocialisti nella misura in cui avrebbe dovuto cercare di “comprendere” Hitler al fine di meglio interpretarlo.
In un’intervista su The Guardian, non senza qualche salto logico più che di etnia, l’attore rassicurava sé stesso e noi lettori con le seguenti parole: «Mi ha aiutato il fatto di essere svizzero, non tedesco». Insomma, la cittadinanza elvetica come difesa immunitaria da un virus evidentemente solo tedesco (di marca austriaca, però).
Altri interpreti di Hitler, come l’attore e regista teatrale Steven Berkoff o l’attore Ken Stott, hanno tentato una giustificazione alternativa. Dopo molti studi e ricerche, pare abbiano concluso che sarebbe stato necessario svilire i contorni carismatici del Führer al fine di svelare una verità – in realtà non poco nota – sul folle dittatore, e cioè che fosse un folle, oltreché un dittatore.
Insomma, molti tra coloro che sono stati chiamati a interpretare il male incarnato, proprio come Marinelli (forse con più parsimonia nella venatura poco romanamente melò) hanno voluto ribadire con toni stentorei la netta distinzione tra la loro reale persona e i personaggi che mettevano in scena.
Tutti costoro hanno avvertito il bisogno di sottolineare la separatezza ontologica e deontologica tra l’interprete e l’interpretato – come a volerci rassicurare che l’interpretato fosse una maschera da indossarsi a puro fine ricreativo, benché le sozzure rilasciate dalla stessa richiedano poi un sovrappiù di abluzioni.
Quel che accomuna questi due casi, e molti altri, di artisti che avvertono la medesima apologetica compulsione, è appunto l’inspiegabile timore di un contagioso virus, sprigionato dalle malìe della rappresentazione artistica – un virus che, come per anatema, minaccia di penetrare nella vita vera e di rendere violenti, prevaricatori, fascisti.
In definitiva, sembra quasi che del male non si possa restituire l’immagine senza con ciò macchiarsi di involontaria correità, dalla quale occorre mondarsi con la completa esposizione dei propri quarti di nobiltà morale.
Il ruolo dell’arte
Epperò, da che mondo è mondo, l’arte ha proprio il compito di rendere dicibile l’indicibile, pronunciabile l’impronunciabile, o almeno far sospettare l’esistenza delle due dimensioni; insomma, presentificare il male nelle sue molteplici forme. L’arte deve potersi fare campo renitente al giudizio della morale convenzionale, proprio per poter plasmare una nuova e più consapevole morale.
Come scriveva Giorgio Manganelli, l’arte è una piaga purulenta che «con insolenza, con industriosa pazienza (…) fruga e cerca e cava fuori affanni, e malattie, e morti: con appassionata indifferenza, con sdegnato furore, con cinismo ostinato li sceglie, giustappone, scuce, manipola, ritaglia». Proprio per una tale indisponente postura, l’arte si rovescia in un potentissimo dispositivo atto a forgiare i nostri criteri morali e renderci quel tanto più preparati all’inesauribile stupidità della nostra specie.
Se e quando l’arte è arte, essa ha da far male, urticarci con gesto abrasivo, non già carezzarci e rasserenare gli animi. Se e quando l’arte è arte (si badi: se e quando), chi la pratica dovrebbe fare vanto della più spietata iconoclastia, tesa a sfiancare ogni nostra rassicurante certezza e a scuotere l’autocompiacimento del nostro benpensare (anzitutto sui confini dell’arte).
L’arte deve spingerci in una dimensione dolorosa e perturbante di insondabile malvagità, perché ne possiamo uscire sperabilmente migliori, o perlomeno meglio capaci di conoscere i nostri limiti.
All’opposto, l’apologia preventiva si consegna colposamente alle spire perverse del pensiero perbene, che non ha bisogno di pungoli perché già conosce e pratica tutte le virtù (che peraltro scopre tutte sue). Così preoccupata dei confini tra arte e vita vera, la difesa della propria onestissima persona (rispetto al mostro che si mette in scena) non fa che stemperare la forza sovversiva dell’arte.
Al contempo, con un fare tanto scaramantico quanto comodo e avvocatesco, per paradosso l’artista finisce col ripulirsi dalla propria lordura in nome della più privata e meno encomiabile tra le motivazioni – finisce, cioè, col giustificare le proprie scelte in forza di stringenti ragioni di cachet.
Perché mostrare il male
Credo allora sia importante che si continui a impersonare i cattivi in nome e per conto dell’arte, cercando di usare il male come ritratto obliquo delle nostre più inconfessate e recondite inclinazioni. Rappresentare il male ci permette di vedere noi stessi nello specchio anamorfico dell’arte – ragione per cui Dostoevskij s’accalorava sui casi peggiori, quelli persi, segnati da una destinalità senza scampo né redenzione, e Maupassant dedicava le pagine più lunghe e belle alle disgrazie di Jeanne Le Perthuis des Vauds e poche rapide note di raccordo alle sue disperse gioie.
Solo così, una volta sottoposto alla prova più dura di scandagliare sé stesso fino in fondo, il malvagio arriva a provare disgusto per il proprio male. Non per santità connaturata, esorcismi o formule di scongiuro, chi fa il male si emenda dalle proprie mostruosità, ma con atto di ripiegamento sul sé più osceno e censurato.
Insomma, sarà bene che lo spazio artistico possa ritenersi sciolto da troppo facili sensi di colpa, così che chi sul palco interpreta Oreste non debba, per evitarsi la persecuzione delle Erinni, rincuorare la propria madre che di suo non nutre alcun intento matricida.
A tal fine, si raccomanda a coloro che praticano l’arte quel tanto o quel poco di coraggio che serve per svolgere l’ingrato compito cui sono chiamati: gestire con impudenza e sprezzatura quell’ordigno così letale, il cui insolente mestiere, ahilei, è la denuncia delle nostre sovrabbondanti bassezze.
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