In quel deserto di ideali, visioni, competenze e creatività (persino utopie) che è diventata la politica italiana, l’unica arma per conquistare i cittadini (oltre agli slogan sempre più politicamente scorretti e dal linguaggio forte) è il racconto del proprio vissuto personale, sbattuto in faccia agli avidi lettori su tirature dai grandi numeri dell’editoria. Altrimenti nessuno si accorgerà di te
Mi accorsi che doveva essere successo qualcosa da come i compagni evitavano di guardarmi in faccia e abbassavano la testa». Poche donne sono state umiliate quanto Teresa Noce, che nel 1953 apprende dalle pagine del Corriere della sera ciò che suo marito le ha fatto: Luigi Longo, lo storico dirigente del Partito comunista che Teresa aveva sposato giovanissima nella Torino operaia, l’uomo che aveva seguito nell’esilio in Francia per scampare alle persecuzioni di regime e poi nella Guerra di Spagna (fino al punto di abbandonare suo figlio per poi finire deportata nel campo nazista di Ravensbruck, destinato alle nemiche di regime) ha ottenuto l’annullamento del matrimonio a San Marino, per sposare una compagna più giovane.
Il leggendario capo partigiano, il rivoluzionario di professione, non ha avuto il coraggio di comunicare di persona alla compagna di una vita le sue intenzioni. Ma una cosa è certa. Il privato non è politico, secondo il partito.
E Teresa deve tacere, come le intima il segretario Palmiro Togliatti, in una lettera durissima (oggi conservata alla Fondazione Gramsci): in caso di unioni infelici, «di fatto già spezzate», se un «coniuge compagno chiede una rottura necessaria», semplicemente si deve acconsentire.
Alla fine sarà Teresa a essere messa sotto accusa dalla direzione del Pci (tutta al maschile). Non tanto per aver dato sfogo a un trauma «più grave e doloroso del carcere». Ma per aver squarciato l’ipocrisia di quegli anni, in nome di una sacrosanta verità: chi è chiamato a ricoprire un incarico pubblico non può avere due condotte, una pubblica e una personale.
La famiglia tradizionale
Che le famiglie si possano sfasciare non è una novità del nostro mondo. E non lo è neppure l’attenzione che i giornali riservano alla vita di chi ricopre incarichi istituzionali ed è chiamato a una coerenza fra i comportamenti da adottare tra dimensione politica e sfera privata.
Ma in Italia, si sa, la famiglia tradizionale è sacra (e lo sarà a lungo). Ed è molto più seducente parlare di matrimoni finiti (senza divorzio né lungo né breve, vista l’assenza di un altare o municipio) che difendere tutte quelle unioni valide per affetti, sentimenti (anche senza sangue).
Specialmente quando ai genitori dello stesso sesso viene negato il diritto di andare a prendere il proprio figlio a scuola se non attraverso una delega, di accompagnarlo dal pediatra, fino a costringerlo a rinunciare a un viaggio all'estero.
Sarà che siamo un popolo di sentimentali, ma è davvero durissima distaccarsi dall’idea di una famiglia che sta scritta solo sulla carta, spesso destinata a procedere per lenta agonia, quasi che la condanna all’infelicità sia un sacro destino immutabile. E anche ammesso che la colpa sia sempre dei giornalisti (che per mestiere le informazioni devono darle, se non altro per far stare in piedi quel briciolo di coscienza critica ancora in circolazione nelle menti): siamo proprio sicuri che sia il giornalismo a fare spettacolo o voyeurismo?
Specchio rovesciato
Potrebbe anche trattarsi dello specchio rovesciato di una parabola discendente della politica, dove i leader si comportano come influencer e dove i livelli di personalizzazione sono talmente fuori controllo che, in occasione degli appuntamenti elettorali, ai simboli dei partiti si va addirittura a sostituire il cognome di un candidato, fino a usare il nome di battesimo sulla scheda elettorale, come se si andasse a tifare per una vicina di casa, e non a esprimere una preferenza con il proprio voto.
In quel deserto di ideali, visioni, competenze e creatività (persino utopie) che è diventata la politica italiana, l’unica arma per conquistare i cittadini (oltre agli slogan sempre più politicamente scorretti e dal linguaggio forte) è il racconto del proprio vissuto personale, sbattuto in faccia agli avidi lettori su tirature dai grandi numeri dell’editoria. Altrimenti nessuno si accorgerà di te. Se poi in copertina appare un volto sorridente in linea con la retorica del carattere coraggioso, forte, spregiudicato, pronto a emergere in un mondo di soloni, allora il gioco è fatto.
«Il melonismo è il femminismo che la sinistra sogna da sempre», ha scritto Salvatore Merlo sul Foglio. Peccato che l’emancipazione delle donne non passi per la rottamazione o il licenziamento di mariti infedeli o nell’enfatizzare l’appartenenza a un circolo familiare fatto di legami solidali e non competitivi (la mamma coraggiosa, la sorella complice, la figlia protetta).
Magari alle giovani ragazze in attesa di diventare donne libere andrebbe insegnato anzitutto a dire “no”. Ad autodeterminarsi, a scegliere liberamente, a non essere per forza vice madri di quegli uomini che amano ancorarsi all’infanzia della loro vita. Ovvero a smetterla di aspettare il principe azzurro che venga a liberarle dalla miseria e dai tormenti.
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