Arrivata arrembante alle elezioni del Parlamento europeo, il 9 giugno, sull’onda di una notevole visibilità personale e politica guadagnatasi con l’attivismo dispiegato a tutto campo sulla scena non solo europea, ma internazionale, a capo dello schieramento dei Conservatori e Riformisti europei, Meloni celebrò la crescita elettorale e l’aumento del numero di seggi parlamentari come un grande successo.

Credette anche e lo raccontava trionfante che era giunto il momento di un cambio di maggioranza nel Parlamento europeo, preludio a non meglio precisati recuperi di sovranità nazionale/i. Faceva affidamento anche su quello che sembrava un rapporto consolidato con Ursula von der Leyen alla ricerca di una riconferma.

Da un lato, però, i numeri di Meloni non tornavano poiché la vecchia maggioranza aveva sostanzialmente tenuto e i suoi alleati non avevano affatto “sfondato”. Dall’altro, le differenze politiche sull’Europa che c’è e soprattutto sull’Europa da fare avanzare fra von der Leyen con la sua maggioranza Popolari, Socialisti e Democratici, Liberali e Verdi e gli alleati di Meloni si erano dimostrate e rimanevano profonde.

Dopo un’esasperantemente lunga riflessione, non aiutata dalla sua fin troppo amica stampa che la incensava come vincitrice e quindi meritevole di laute ricompense, non avendo ottenuto niente, Meloni decise di non votare Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione, neppure come generosa apertura di credito.

Da allora, la politica europea del governo italiano ha un profilo molto basso, da underdog (sic) e un andamento molto lento. In un certo senso, il tempo è necessario per leccarsi le ferite, forse anche per provare a formulare una nuova strategia di influenza oltre a manifestare alterità, contrarietà, presa di distanza. Però questa nuova strategia non la vede nessuno.

Comunque, poiché “la contraddizion nol consente”, è molto improbabile che i governi degli Stati-membri sovranisti, ciascuno dei quali persegue i suoi interessi nazionali, riescano a darsi una politica europea comune, quantomeno condivisa. Al contrario, talvolta sembrano i capponi di Renzo che peggiorano la loro condizione.

Avendo perso smalto, ma sull’Europa mi era parsa sempre piuttosto inadeguata, Giorgia Meloni non ha finora elaborato nulla di nuovo che possa fare breccia nella maggioranza Ursula e trovare accoglienza positiva. Anzi, dimostra più di una incertezza. Anche se da mesi circola in splendido isolamento il nome del ministro Raffaele Fitto come il commissario che Giorgia Meloni designerà, manca l’ufficialità. Probabilmente, il ritardo è dovuto a qualche trattativa ufficiosa, giustamente riservata, con la presidente del Consiglio italiano che insiste, come ha più volte dichiarato, per ottenere una vice-presidenza, prospettiva peraltro già sfumata, ma soprattutto per avere una delega di peso per il suo commissario.

Ritardi e rinvii non sembrano forieri di un esito felice. Nei prossimi cinque anni l’Unione europea avrà non pochi problemi importanti da affrontare, alcuni già con noi: l’aggressione russa all’Ucraina e i flussi migratori che sicuramente non termineranno. Altri non proprio nuovi, ma comunque ineludibili: gli allargamenti a più paesi dei Balcani e dell’Est. Inoltre, incombono il coordinamento delle politiche fiscali e la formulazione di una efficace politica estera e di difesa. Infine, naturalmente, c’è da attendersi qualche emergenza.

Silenzi e ritardi del governo Meloni, il cui partito proprio non pullula di europeisti per inclinazione e per conoscenze, rischiano di mettere l’Italia ai margini. L’opposizione non potrà rallegrarsi perché il prezzo lo pagherà il paese, pardon, la Nazione, e sarà salato.

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