A Parigi più di 300 leader religiosi del mondo intero, assieme a Macron. Si parla di pace, ma anche dei problemi della vita del mondo e dei popoli. La guerra è un ingranaggio che manipola i leader e li condiziona
Immaginare la pace: questo il titolo dell’evento interreligioso che si è tenuto a Parigi dal 22 al 24 settembre, la 38ª edizione di un cammino intrapreso ad Assisi nel 1986 su impulso di san Giovanni Paolo II e proseguito dalla Comunità di Sant’Egidio ogni anno di città in città. Centinaia di rappresentanti di religioni e culture hanno dialogato e si sono incontrati per parlare di pace, per immaginare la pace. Si tratta di uno sforzo ancora rilevante in un mondo in cui le guerre sono in aumento?
Questa è la domanda che si sono posti in molti: alcuni pensano che la soluzione delle controversie implichi necessariamente il conflitto; altri sottolineano il fallimento di numerosi negoziati e, in definitiva, della politica; altri ancora ritengono che si tratti di un impegno ingenuo di fronte a tanta violenza. Mai come ora dal 1945 le guerre sono state così numerose: 59, secondo gli istituti internazionali sui conflitti.
Dentro tali cifre c’è un po’ di tutto: guerre tra stati; guerre civili; guerre interne con milizie; guerre per il controllo di un paese o causate dal suo disfacimento; guerre di religione o di etnia; guerre ideologiche; guerre umanitarie, guerre per le risorse e così via. In un’epoca di così tanti conflitti ha ancora senso parlare di pace? Chi lavora per la pace sa che si tratta di uno sforzo paziente e continuo, sia come diplomazia istituzionale che come mediazione non istituzionale svolta dalla società civile o dalle chiese.
Nessuno ha l’esclusiva della pace e del dialogo: si tratta di una cultura trasversale che può vedere la luce in ogni civiltà e a ogni latitudine. La guerra non è selettiva e può divenire la realtà quotidiana di chiunque, anche di chi non se l’aspetta come gli europei che la credevano impossibile. Nessuno ne è immune.
Lavorare per la pace può diventare una domanda permanente nella vita di credenti e laici preoccupati dal caos globale, un quesito rivolto anche alla cultura e alla politica per non lasciarsi trascinare dall’ingranaggio della contrapposizione e della logica del nemico. Ciò vale ancor di più per tempi bui come i nostri, nei quali pare che la guerra sia sdoganata come strumento per risolvere le controversie internazionali (o interne), cioè esattamente l’opposto di quanto è scritto nella costituitone italiana. Radunarsi dai quattro angoli del mondo per parlare di pace resta dunque molto utile: rafforza chi non cede al “pensiero unico bellicista” e va in cerca di soluzioni possibili e ragionevoli. Inoltre dimostra che la pace può essere un dono condiviso da tutti, non importa a quale religione o universo appartengano.
Quando convocò le religioni mondiali ad Assisi nel 1986, l’idea del papa Giovanni Paolo II era di riappropriarsi del dossier della pace e proporre il modello cristiano delle transizioni pacifiche, come in effetti accadde nelle Filippine o in Cile ad esempio. La Santa Sede di papa Wojtyla si volle attiva sul terreno della mediazione ad esempio nel caso della trattativa per la contesa sul Canale di Beagle tra Argentina e Cile in cui il Vaticano arbitrò. Due secoli dopo la Rivoluzione francese il papa voleva affermare la possibilità di una rivoluzione pacifica, senza spargimenti di sangue, capovolgendo il modello. Desiderava anche strappare dalle mani della politica dell’Urss il concetto di pace, ampiamente sfruttato da Mosca durante la Guerra fredda. Ad Assisi disse: «La pace è nostra!».
Con quel gesto confermò l’autorità nella chiesa cattolica: con i papi del XX secolo la chiesa di Roma era diventata il garante della pace globale, come si vide con la contrarietà espressa nei confronti degli sforzi bellici anche in polemica con gli episcopati nazionali. I vescovi francesi, ad esempio, durante la Prima guerra mondiale si misero contro Benedetto XV che a Parigi la stampa etichettava come “Pilato XV”. Nel 1986 ad Assisi la pace fu definita «un cantiere sempre aperto che cerca i suoi artigiani». La dimensione religiosa della pace si fuse con quella culturale e politica: la guerra divenne il nemico principale, cioè un ingranaggio che si impossessa della volontà dei leader e li manipola. Questi ultimi pensano di poter terminare i conflitti quando vogliono ma la storia delle guerre – anche recenti – dimostra che ciò è falso.
Testimoni nella notte buia
Sant’Egidio ha voluto seguire tale cammino lavorando a numerose transizioni pacifiche e a mediazioni in conflitti violenti, ad iniziare dal Mozambico nel 1992. Gli incontri di dialogo interreligioso sono degli annual meeting che permettono di fare il punto e di approfondire tale visione. Tutti possono lasciarsi invadere dalle passioni, anche le religioni e i loro fedeli, così come possono lasciarsi influenzare dagli etnicismi, dai nazionalismi, dai bellicismi, dai fondamentalismi, dallo spirito di vendetta.
Essere cristiani non garantisce l’immunità contro l’ebbrezza delle passioni. Lo spirito di Assisi è anche l’autodifesa delle religioni stesse contro tali tentazioni: supportarsi vicendevolmente per non cedere. A Parigi i leader religiosi, assieme ai laici e a politici, hanno parlato di tutto ciò che concerne la vita del mondo attuale: dalle guerre alla difesa dell’ambiente; dalla povertà all’intelligenza artificiale e così via. Al centro di tutto, la pace da immaginare che oggi sembra così sfuggente.
Fin dalla sua nascita Sant’Egidio ha coltivato una speranza realistica e tenace: la pace è sempre possibile, ma occorre trovare i mezzi per realizzarla con pazienza, ricostruendo le fratture, creando un quadro di garanzie per il futuro, dimostrando che non c’è niente di peggio della guerra, dando uno sbocco al desiderio di pace dei popoli che spesso cadono ostaggi della cultura o propaganda bellica. Parlare di pace serve a rafforzare una cultura del dialogo con le altre religioni. Davanti alle terribili guerre in Ucraina, a Gaza o in Sudan, esiste la responsabilità di trovare le parole del futuro.
Non si tratta solo di avere una posizione morale o di “testimonianza” sul valore della pace, ma di adoperarsi attivamente nelle situazioni di conflitto. Più che di pacifismo bisognerebbe parlare di pacificazione, dal momento che i conflitti esisteranno sempre ma si può evitare che diventino violenti. Occorre dar prova di fermezza davanti alle posizioni isteriche o ideologiche: parlare di pace è sempre utile, soprattutto quando c’è la guerra. È ciò che fecero i testimoni che continuarono a sperare anche nella notte buia della seconda guerra mondiale e della Shoà. Mai più la guerra! Fu il sogno di quella generazione che deve passare a quelle successive.
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