«Procedi nel tuo viaggio che spero sia bello quanto quelli di cui sognavi perché, mio dolce ragazzo, sei finalmente libero». Sono le parole di Rachel Goldberg-Polin, la madre di Hersh rapito dal Hamas il 7 ottobre 2023 e assassinato in un tunnel a Gaza qualche giorno fa, forse poco prima del tentativo di liberarlo. Scossi e vicini al cuore di una donna distrutta, che trova la forza di parole che solo una madre può dire per salutare il proprio figlio, ci chiediamo: come essere finalmente liberi?

Liberi dalla violenza che uccide senza guardare il volto di chi ti è stato imposto come nemico. Violenza che già in molte altre guerre precedenti si è rivelata inutile, capace sollo di riprodurre sé stessa. Liberi dall’odio che sfigura interi popoli rendendoli inavvicinabili e spaventosi agli altri. Liberi dai calcoli di politici cinici che non danno più valore alla vita umana, nemmeno a quella dei propri concittadini, ossequiando l’antico messaggio demoniaco secondo il quale la propria ragione può richiedere sacrifici umani.

Liberi da una storia pesante e da una memoria che schiaccia condannando a ripetere per sempre gli errori del passato, come se fosse possibile ottenerne un risultato diverso. Liberi come bambini che crescono senza imparare l’odio mortale che gli adulti già insegnano loro in tenera età.

Libere come madri che accompagnano i propri figli verso la vita invece di vederli costretti a imbracciare le armi –in primis l’arma dell’odio – per combattere un nemico considerato eterno. Liberi come figli che sognano il mondo oltre i muri, le separazioni, le bombe e l’abominio della distruzione totale della natura. Liberi dalla morte che schiaccia ogni vita rendendo quelle terre – la Terra Santa! – aride, senza futuro e senza discendenti.

Il pianto amaro

Tra le grida dei politici, e dei falsi alleati, debole si sente il lamento delle madri che piangono i loro figli e non vogliono –non possono- essere consolate, come Rachel Goldberg-Polin, come Rachele della Bibbia: «Una voce si ode a Rama, un lamento e un pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, e non vuole essere consolata per i suoi figli, perché non sono più» (Ger. 31, 15).

Come ha detto papa Francesco: «Rachele racchiude in sé il dolore di tutte le madri del mondo, di ogni tempo, e le lacrime di ogni essere umano che piange perdite irreparabili”.

Senza timore di passare per populisti, dobbiamo affermare che oggi la politica appare totalmente inadeguata a rispondere al pianto delle madri. Né a Gaza o in Ucraina né altrove dove si combatte, come nel dimenticato Sudan, si leva la voce dei responsabili per chiedere pace e fare ogni sforzo per negoziare e asciugare le lacrime. Soltanto si odono grida di guerra, con governanti e dirigenti che si sentono in obbligo di spronare alle armi.

Anzi: c’è anche chi si sente investito da un dovere quasi etico: se non lo faccio io, chi lo farebbe? Come se sollecitare all’odio e alle armi fosse l’unica via da seguire. La guerra pare ormai accettata come risposta normale ad ogni contesa; la rappresaglia senza limiti come reazione morale; l’odio come una forma di vita accettabile e addirittura ragionevole.

Il sonnambulismo della politica

Una cosa però deve essere chiara: chi acconsente a tale stato di cose mentre avrebbe il potere di fermarle, frenarle o almeno di smussarle interrogandosi, sarà certamente condannato dai posteri e dalla storia che verrà. Sempre nel passato è avvenuto che l’odio cieco e la risposta violenta, non importa quale ne fosse la giustificazione, sia stato in seguito condannato dai posteri che lo hanno valutato come un agire politico cieco e primitivo. Come sappiamo il giudizio meno severo attribuito a chi è caduto nel gorgo delle guerre europee precedenti è stato di “sonnambulismo”.

La domanda rivolta all’uomo davanti alla violenza è sempre la stessa: “dov’è tuo fratello?”. Si può rispondere come si vuole: accusando il fratello e gettando su di lui tutte le colpe, scansando ogni responsabilità, addirittura negandogli il titolo di fratello. Ma la domanda rimane. I responsabili politici europei devono essere consapevoli che tale domanda è rivolta anche a loro. Le lacrime delle madri sono una richiesta anche per loro.

Davanti alla loro coscienza e davanti alla storia, dovranno rispondere del fatto di non aver operato con decisione per frenare questo dramma – a Gaza, in Ucraina, in Africa – accettando la logica delle armi e abbandonando la via della diplomazia. Le guerre precedenti ci  offrono questa amara lezione: si affrettino dunque a rammentarle per cambiare strada. Sono le madri, tutte le madri, a chiederlo ovunque. 

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