Due rondini non fanno primavera, ma è gradevole vederle volare su un campo largo quanto lo desiderano. Di volta in volta, anche questo è il bello della politica, quel campo bisogna saperlo definire, renderlo abitabile, popolarlo fino all’affollamento.

Le regioni italiane hanno tutte le loro peculiarità di tradizioni, anche politiche, di storia, di risorse e di problemi. Ciascuna merita soluzioni su misura che non possono essere esportate intatte neanche nella regione più vicina e più simile.

Concretamente, fermo restando che il variegato schieramento di centro-sinistra (sì, il trattino, dopo qualche esitazione, l’ho messo) deve mirare a combinare e tenere insieme tutte (o quasi) le sue sparse membra politiche, partitiche, civiche, il messaggio delle rondini di questi giorni non può essere interpretato come certezza di vittorie future regionali e a livello nazionale. 

Coalizzati si diventa competitivi, potenzialmente vincenti; separati la sconfitta appare probabilissima e le responsabilità vanno a chi ha posto veti e lanciato anatemi. Comunque, la strada della coalizione ampia è l’unica promettente e perseguibile. L’altra strada, la Liguria insegna, porta inesorabilmente alla (meritata) sconfitta.

Sindaci candidati

L’Emilia-Romagna e l’Umbria dicono che, probabilmente, oltre al mettersi credibilmente insieme, serve trovare la candidatura appropriata alla carica di presidente. I sindaci possono vantare una buona visibilità politica e un rapporto abbastanza stretto con i loro cittadini oltre a una qualche esperienza di governo.

Gli insegnamenti sono chiari, in buona misura estensibili alla prossima tornata di consultazioni regionali della primavera del 2025 e, mi allargo assai, forse trasferibili alla selezione delle candidature al parlamento.

Un buon radicamento sul territorio consente ai candidati di partire con il vantaggio della riconoscibilità personale e anche della conoscenza dei problemi ai quali l’elettorato di quei territori vorrebbe ottenere attenzione e risposte. Altrimenti, ma questa non è mai l’unica motivazione, l’astensione è la più logica conseguenza della disattenzione.

L’astensionismo

Curioso che politici e commentatori si mostrino preoccupati dall’astensionismo come fatto in sé senza collegarlo coerentemente all’esito del voto di ieri e a quello di domani.

La mia posizione di partenza è netta: chi non vota non conta e non adempie al suo dovere civico costituzionalmente attribuitogli/le (articolo 48). Molto male è adeguarsi all’idea che la partecipazione elettorale è destinata a essere bassa: «È la modernità, bellezza!» 

Negli spesso troppo biasimati Usa, alle urne presidenziali del 2024 la percentuale di votanti è stata ben superiore al 60. Fare davvero politica sul territorio andando a cercare e raggiungendo chi in Liguria, in Emilia-Romagna, in Umbria, volente o nolente, si è astenuto, non è soltanto un compito democratico. Può essere la carta politica decisiva per accrescere i voti e vincere.

Una coalizione ampia e articolata sa che, accettando al suo interno le differenze programmatiche senza brandirle come vessilli e armi contro gli alleati, ma per collegarsi a elettorati specifici motivarli, può persino riuscire ad allargarsi.

Le elezioni nazionali non sono mai, comunque, una tutt’altro che semplice sommatoria di ventuno elezioni regionali. Conterà molto anche la leadership della coalizione. Il principio democratico ineludibile è che quella leadership la indica, la esprime e la decide il partito più grande, più rappresentativo. Stando così le cose, prevedibilmente toccherà al Partito democratico che saprà poi essere generoso variamente generoso con gli alleati. Adelante, con juicio.

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