Nuova puntata del Renzi show. Il rottamatore (di sé stesso?) torna sui suoi passi, tesse l’elogio di Schlein e, nel suo andirivieni, si volge al centrosinistra. Merita occuparsene? È una cosa seria? Riveste qualche importanza? Interrogativi non peregrini. Basti un cenno alla puntata precedente, che contribuisce a spiegare l’estemporanea svolta. Cioè la sua ennesima débâcle alle elezioni europee, con il mancato quorum, nonostante si fosse aggrappato al carro di +Europa di Bonino. I quali, a valle del voto, si sono chiesti se non fosse stato un boomerang accompagnarsi a lui. Più che un valore aggiunto, un valore sottratto, una partnership respingente.

A fronte dell’ultimo giro di valzer renziano, dentro Italia viva, si è levata la voce isolata di Luigi Marattin. Voce ragionevole quando lamenta di avere appreso dai giornali l’improvvisa strambata partorita in solitudine dal capo. Anche se un po’ sorprende che ci si accorga d’improvviso che Iv sia un partito personale. Una compagnia di ventura, nominativamente cooptata, che lo ha seguito docilmente nel suo inquieto girovagare.

Quando propiziava il governo giallo-rosso e poi lo impallinava, quando si spacciava per oppositore della Meloni salvo spesso correrle in soccorso (sino a dare voti decisivi per l’elezione di La Russa alla presidenza del Senato, a detta di Calenda quando ancora i due stavano insieme). Seguaci fedeli e silenti anche a fronte delle sue lucrose attività da businessman a dir poco imbarazzanti.

Il nuovo scenario

Ma veniamo all’ultima novità. Al netto di quanto sopra che, come minimo, suggerisce cautela, fa bene Schlein a non derogare – neppure con lui, che pure si era proposto di distruggere il Pd di cui fu segretario e cui deve la presidenza del Consiglio – al suo doppio motto: testardamente unitaria e nessun veto verso chicchessia. Massime nelle quali risuona l’eco degli slogan del tempo dell’Ulivo: «Uniti per unire» e «è escluso solo chi si esclude». Fu questa la ricetta vincente.

Ora come allora necessita un’alleanza larga e inclusiva che, per competere con chance di successo, deve mettere a punto un programma di governo, darsi delle regole di coalizione e domandare a chi vi partecipa di operare la scelta strategica di collocarsi stabilmente nel campo del centrosinistra alternativo alla destra. A Renzi come a Conte.

In questo orizzonte sarebbe certo utile il contributo di soggetti centristi idonei ad attrarre un elettorato moderato. Ma qui sta il punto: nel quadro di un bipolarismo che prescrive una scelta di campo inequivocabile.

La svolta di Renzi, pur originata da uno stato di necessità e istinto di sopravvivenza dopo il conclamato fallimento di ogni velleità terzista, va vagliata. Nonostante tutto, a cominciare dall’estemporaneità della giravolta, deporrebbe a sostegno delle ragioni della diffidenza nei suoi confronti. (Un giornale ha titolato «Renzi a sinistra, trappola in vista»). Merita metterlo alla prova. Giusto non pretendere «prove d’amore», ma una cosa sì: lo stop all’ambiguità in tema di premierato assoluto che stravolge la democrazia parlamentare. Questione costituzionale dirimente.

Nel gioco delle parti tra i due fratelli coltelli Renzi e Calenda, si evidenzia un curioso paradosso. Per affidabilità e spessore, sarebbe semmai Calenda la figura più adeguata a interpretare l’anima liberale di un centrosinistra competitivo e di governo. Ma egli non ne vuole sapere, intestardendosi nel suo sterile, autoreferenziale terzismo. Una forma di autismo politico, perché la politica si nutre di relazioni e non disdegna le mediazioni. L’uomo trasmette cioè l’impressione – so che egli reagisce stizzito a chi gliela contesta – di difettare in radice di «vocazione politica».

L’opposto di Renzi che di «vocazione politica» dispone in dosi industriali. Solo merita domandarsi se ciò che di più e meglio qualifica la vocazione politica siano l’attitudine manovriera e lo spirito corsaro alla Ghino di Tacco.

È difficile non nutrire preoccupazione quando Renzi, con orgoglio, rivendica la nomea di consumato professionista delle manovre di palazzo, specializzato (ripeto: lo afferma letteralmente lui stesso) nel sabotare i governi. Non esattamente ciò di cui la sinistra ha bisogno. In tema essa già dispone di una sperimentata tradizione autolesionista. Eppure, su tutto, è giusto far prevalere il motto «uniti per unire». Come si dice in gergo pokeristico merita andare a vedere le carte.

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