L’obiettivo della riforma è sostituire i sempre più vecchi professori universitari con un esercito di riserva di schiavi precarizzati fino all’estremo e costretti a una durevole condizione di povertà, ma che hanno il pregio di poter svolgere lo stesso lavoro dei professori con la flessibilità pretesa dal capitale
Sono sempre più convinto che per comprendere i processi contemporanei sia necessario tornare a quella misteriosa categoria marxiana: l’esercito di riserva del capitale. In termini semplici, il capitalismo ha bisogno di proletarizzare la società, di fare in modo che vi sia un nucleo persistente di lavoratori pronti a tutto per sopravvivere.
Elevando la precarietà a termine assoluto del lavoro, il capitalismo contemporaneo riscrive e radicalizza le sue contraddizioni. Ogni lavoratore è destinato a essere parte di un esercito di riserva, dal momento che le condizioni strutturali di accesso del lavoro sono segnate da una concorrenza spietata che trasforma ogni contratto in un ricatto e neutralizza ogni diritto.
Pensavo a questa svolta paradigmatica del capitalismo leggendo il documento che la Crui (la Conferenza dei rettori) ha presentato in parlamento – con la sola, resistente e lodevole eccezione del rettore dell’Università per Stranieri di Siena, Tomaso Montanari – e che riguarda la riforma del “Pre-ruolo”. Faccio una sintesi, per chi non fosse addetto ai lavori: l’Università italiana ha da tempo intrapreso la strada della precarizzazione persistente come via maestra dei meccanismi in entrata. Per diventare professori universitari già adesso bisogna mettere in conto anni e anni (difficilmente meno di una decina) di contratti a singhiozzo, lavoro gratuito o sottopagato per svolgere sostanzialmente lo stesso lavoro che viene svolto da un professore a tempo indeterminato, ma senza alcuna garanzia né per il presente né per il futuro.
Meno regole, più precarietà
L’attuale governo ha pensato bene di modificare questo scenario già drammatico moltiplicando i contratti precari e deregolandoli ulteriormente. Una proposta di riforma incivile, che trasforma le università in imprese selvagge e pronte a farsi concorrenza al ribasso: sfruttando senza pudore l’esercito di riserva che esse stesse producono.
Di fronte a questa sfacciata proposta, nelle scorse settimane una delle poche note consolatorie sembrava essere il fatto che la Crui mostrasse segni di critica a queste gravi proposte governative. Non era necessario esser dei geni per non fidarsi: la riforma governativa è figlia del lavoro di una commissione presieduta da uno degli ultimi presidenti della Crui. E infatti questo documento appena reso pubblico fa capire il tenore e la direzione di queste critiche. Per i rettori italiani la riforma governativa è criticabile non perché produce troppa precarietà, ma perché ne garantisce troppo poca.
In modo particolare, per la Crui la faccenda più importante è garantire, tramite questi contratti, la possibilità che vi siano giovani studiosi senza prospettive future e sottopagati che però possano insegnare nei corsi di laurea, per evitare che essi crollino per via del fatto che i professori universitari non ci sono più.
Sostituire i sempre più vecchi professori universitari – con la loro stabilità e la loro libertà costituzionale di insegnamento – con un esercito di riserva di schiavi precarizzati fino all’estremo e costretti a una durevole condizione di povertà, ma che hanno il pregio di poter svolgere lo stesso lavoro dei professori con la flessibilità pretesa dal capitale: quando servono, a gettone, a chiamata, con una retribuzione che riguarderebbe un contratto di ricerca ma che deve anche comprendere il lavoro didattico, senza che la retribuzione aumenti ovviamente.
Logiche aziendali
Non è difficile comprendere quali siano le conseguenze culturali e sociali di questa scelta da parte dei rettori di mostrarsi più realisti del re (cioè del governo) e di rivendicare per le università un tale abbattimento del costo del lavoro nel processo produttivo che le trasforma in aziende offshore.
Il prezzo da pagare è infatti la trasformazione irreversibile sia della funzione pubblica dell’Università sia dell’essenza della ricerca e della didattica universitaria. Nel primo caso, le università non solo non criticano, ma addirittura spingono perché il loro autogoverno sia codificato a partire da logiche puramente economiche e non sociali.
L’università diventa un’azienda come un'altra, la cui funzione è quella di fare risparmio e produrre profitto, non di contribuire con un’attività intellettuale alla fioritura di una società complessa. Nel secondo caso, la ricerca e la didattica vengono modificate nel loro statuto temporale. Per fare ricerca autentica c’è bisogno di tempo, di attesa, di tentativi e di errori, di scommesse e sentieri interrotti. Alla ricerca e alla didattica universitaria appartiene uno statuto speciale: che è quello di intraprendere nuove strade, di immaginare il futuro per comprendere il presente.
L’idea invece che ogni contratto di ricerca debba essere sottomesso alla volatilità e alle esigenze del capitale, per cui si può anche fare ricerca con contratti spezzatino e senza alcuna garanzia, è un elemento che ha non solo delle gravissime conseguenze sociali, ma anche culturali. È davvero avvilente che coloro che dovrebbero rappresentare le comunità accademiche, invece di difendere la propria funzione culturale, abbiano scelto per l’ennesima volta di autodistruggerla.
Ed è altrettanto grave che non si apra in Italia un dibattito pubblico. In cui a prendere la parola siano i professori universitari, che possono sollevare le questioni sul futuro del sistema universitario senza essere sotto il ricatto della precarietà selvaggia. E invece quello che facciamo è accettare di fare la guerra ai precari magari per elemosinare pochi spiccioli di adeguamento stipendiale. Solo noi possiamo prendere la parola, e dobbiamo farlo per coloro che la parola non possono prenderla perché sempre più sotto ricatto, per i giovani lavoratori poveri che sono costretti come noi a vestirsi con eleganza per dissimulare la disperazione sociale e culturale a cui li stiamo condannando.
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