Ricordano tutti i sondaggisti che le intenzioni di voto che presentano regolarmente – e un po’ ossessivamente, andrebbe detto – non riflettono con esattezza il comportamento di voto degli elettori nel momento in cui infileranno la scheda nell’urna.

Offrono una valutazione di massima sugli umori dei cittadini. Semmai hanno più valore i giudizi, sommari quanto si vuole ma indicativi, che vengono dati all’operato del governo (ed eventualmente dell’opposizione).

L’ultimo report di Radar-SWG di ottobre e i dai forniti dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli registrano un gradimento del governo e della presidente Giorgia Meloni in picchiata. Hanno perso quasi venti punti dal momento dell’ingresso a palazzo Chigi. Un calo molto più forte di quello fisiologico che subiscono tutti gli esecutivi dopo il credito che normalmente si assegna loro quando nascono.

Più in particolare, richiesti di indicare i punti forti del governo, appena il 14 per cento degli intervistati lo ritiene in sintonia con la gente comune (e anche tra gli elettori di destra questa convinzione è precipitata nel corso del tempo); mentre, tra i punti deboli, al primo posto spicca la carenza di personalità valide e competenti tra i ministri.

Il trionfalismo e l’arroganza della maggioranza, espressi anche in questi giorni, quindi, è mal riposto: non corrisponde alle domande dei cittadini che infatti stanno perdendo fiducia, e manifesta tutta la sua fragilità quanto a personale politico.

Lo stato dell’opposizione

Anche la stella di Meloni si è offuscato agli occhi degli elettori, mentre invece continua a risplendere per tanti opinionisti dei maggiori media. Per l’opposizione è il momento di tentare un affondo.

Il primo colpo può venire dalle elezioni regionali. Un tre a zero metterebbe ansia tra le file della maggioranza e qualche scollatura potrebbe diventare una spaccatura. Ma la sinistra, largamente intesa, è pronta a raccogliere la sfida?

Non sembra, allo stato dei fatti. Le criticità sono molte. Iniziamo dal punto più dolente, il M5s. Questa formazione è in preda a una seria crisi esistenziale: non sa più cosa è, a quale leader affidarsi, a cosa richiamarsi. Finito il grande momento del partito nuovo e diverso, della rete e dell’antipolitica in nome dell’onestà (come gridavano i giovani pentastellati, Luigi Di Maio in testa, al funerale di Casaleggio), esaurita l’offensiva laburista del reddito di cittadinanza, i Cinque stelle si affidano alla visibilità di Giuseppe Conte, con tutte le umoralità del caso.

In questa fase il M5s, proprio per le sue difficoltà interne, è un oggetto urticante con cui è difficile interagire, e figurarsi costruire alleanze solide. Eppure non se ne può fare a meno. La costola sinistra dell’opposizione, invece, si mantiene in buona salute. Senza strepiti movimentisti che producono solo danni, la coppia Bonelli-Fratoianni mantiene un canale aperto con il mondo giovanile più insofferente dello stato delle cose per rappresentarlo nelle istituzionali.

Quanto a Matteo Renzi, ben venga, purché capisca che il suo ruolo è di compagno di strada, non di leader, e riconosca di avere sbagliato tutto o quasi nella sua parabola politica. Altrimenti non si capisce perché si (ri)aggreghi al carro della sinistra.

Il ruolo del Pd

Questo quadro deve essere portato a sintesi dal Pd, assurto inequivocabilmente a partito guida dell’opposizione. Per poter svolgere questo ruolo al Partito democratico mancano ancora alcune condizioni. Una riguarda il suo rafforzamento organizzativo. Non sembra che la segretaria se ne curi più di tanto. I rapporti centro-periferia continuano a essere incerti, il tesseramento rimane affidato alla (consueta) buona volontà dei dirigenti locali più che a un investimento collettivo, lo statuto rimane inossidabile a zavorrare il partito.

Per guidare bisogna essere bene in forze. E dimostrarlo. Se la raccolta delle firme per i referendum abrogativi è andata bene, ma non era una iniziativa del solo Pd, altre mobilitazioni collettive non se ne sono viste.

L’altra condizione, e non è da poco, investe il profilo ideologico. Su tutti i temi di politica interna le posizioni sono chiare, improntate a un riequilibrio delle disuguaglianze sociali, educative, di genere e territoriali. Lo stesso per la dimensione internazionale ancorata su europeismo, atlantismo, multilateralismo e rispetto del diritto internazionale per tutti, non solo per gli amici.

Tutti questi temi, soprattutto quelli declinati sul piano interno, rimangono però “isolati”, non delineano una visione complessiva di una società alternativa a quella dalla destra. Manca il cemento ideale per amalgamare tutto questo. Al Pd servono luoghi e modi non occasionali per discutere, riflettere, progettare. Per delineare un pensiero forte e lungo, non schiacciato sul quotidiano. Sul Pd grava la responsabilità di guida dell’opposizione. A oggi, tuttavia, le sue spalle sono ancora gracili per reggere questo compito.

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