Lascia pochi dubbi la prima importante serie di nomine di Donald Trump. Il 2025 non sarà il 2017. Non vi saranno figure esterne, talune addirittura con qualche timida credenziale bipartisan. Né vi saranno esponenti di un establishment internazionalista repubblicano incaricato di portare competenza e moderazione, oltre che di contenere le intemperanze e gli impulsi del presidente.

Perché quell’establishment di fatto non esiste più, spazzato via dalla piena trasformazione del partito repubblicano nel movimento Maga: dove domina un popolo che con il suo leader ha un rapporto diretto e privo d’intermediazioni. E perché Trump la lezione sembra averla appresa e non è più disposto a farsi mettere sotto tutela.

È vero che i futuri segretario di Stato – il Senatore della Florida Marco Rubio – e consigliere per la Sicurezza Nazionale – il deputato sempre della Florida Michael Waltz – hanno in passato espresso posizioni ascrivibili più a un classico, aggressivo interventismo conservatore (Rubio addirittura celebrando il libero commercio e declinando le sue posizioni anticinesi in termini di principi e di difesa dei diritti umani). Entrambi, però, si sono gradualmente riposizionati per evitare una scomunica che ne avrebbe decretato l’inevitabile morte politica. E garantiscono oggi alla seconda amministrazione Trump l’adozione di posizioni – dura verso l’avversario cinese e ferma nei confronti degli alleati europei – che appaiono perfettamente allineate con quelle del presidente.

Solo falchi per Trump

È questo il primo punto da sottolineare. Le nomine premiano falchi che considerano la Cina il vero, e per certi aspetti unico, rivale di potenza degli Usa. E che da tempo sollecitano una politica di più attivo contenimento di Pechino. I cui complementi essenziali debbono essere un maggior impegno nella difesa comune da parte degli alleati europei, per liberare risorse e riorientarle verso l’Asia-Pacifico, e l’adozione di politiche commerciali protezionistiche, funzionali primariamente a colpire la Cina e a ridurne presenza e peso in quella rete d’interdipendenze finanziarie e commerciali che ha definito la globalizzazione contemporanea.

Se Rubio e Waltz segnalano l’intenzione di adottare una posizione ancor più intransigente verso la Cina, da promuoversi intensificando le pressioni sull’Europa e aumentando la presenza militare in Estremo Oriente, altre nomine indicano la volontà di appoggiare senza remore Israele (e Netanyahu) nel teatro mediorientale. Il nuovo ambasciatore in Israele (e candidato presidenziale nel 2008), Mike Huckabee, l’ambasciatrice alle Nazioni unite, la deputata di New York Elise Stefanik, e l’inviato speciale in Medio Oriente, Steven Witkoff, sono tutti schieratissimi a sostegno dell’attuale governo israeliano e hanno espresso in passato posizioni fortemente antipalestinesi (pochi anni fa, l’evangelico conservatore Huckabee aveva dichiarato alla Cnn di non riconoscere l’esistenza della Cisgiordania: «Penso che Israele agisca solo sulle proprietà che già possiede», affermò allora, e che «abbia un diritto di proprietà sulla Giudea e sulla Samaria. Ci sono parole che mi rifiuto di usare. Non esiste una Cisgiordania. Esistono la Giudea e la Samaria. Non esiste un insediamento... non esiste un’occupazione»).

Non sappiamo se questo pieno allineamento a fianco dell’alleato israeliano si tradurrà in una partecipazione attiva ad azioni militari contro l’Iran e i suoi proxies o, più probabilmente, nel dare carta bianca a Netanyahu, continuando a garantire la difesa d’Israele da attacchi missilistici. La seconda appare più probabile, in un contesto dove scompariranno anche le deboli (e inefficaci) sollecitazioni giunte in questi mesi dall’amministrazione Biden.

Infine, le ultime nomine in materia di politica estera e di sicurezza alle quali va prestata attenzione sono quelle di Pete Hegseth – un trascorso militare di basso livello e poi vari anni come commentatore televisivo sulla rete televisiva Fox – a segretario della Difesa e quella del rappresentante del Texas, John Ratcliffe, a direttore della Cia (carica, quest’ultima, che non ha però più il peso e l’influenza di un tempo).

Nel segno del Maga

Anche in questo caso si premiano lealtà, affidabilità e piena omologazione ai dogmi del Maga a discapito di esperienza e competenza. Forte è però l’impressione che siano nomine finalizzate a mettere sotto controllo apparati statali – il Pentagono e i servizi d’intelligence – che potrebbero ostruire le politiche più radicali dell’amministrazione e nelle quali, soprattutto nella Cia, vi è una burocrazia storicamente ostile alle posizioni della destra estrema. Che Hegseth e Ratcliffe abbiano insomma la funzione, anche simbolica, di segnalare l’intenzione di colpire il presunto deep state.

Infine, vi sono nomine che appaiono deliberatamente controverse e provocatorie, come quella dell’ex deputata delle Hawaii Tulsi Gabbard a dirigere la comunità dei servizi d’intelligence, o di un altro deputato della Florida, Matt Gaetz, a guidare il dipartimento della Giustizia. Figure, Gabbard e Gaetz, che combinano radicalismo Maga, mancanza delle competenze e dell’esperienza minime per ruoli così delicati, e un passato controverso, fatto di prese di posizione pro Putin e Assad (Gabbard) e di scandali che sono costati l’emarginazione dentro lo stesso partito repubblicano (Gaetz, che finì sotto inchiesta per i suoi rapporti sessuali con una minorenne).

I cortocircuiti potenziali sono plurimi e, a dispetto di quanto spesso si creda, sulla politica estera i margini di manovra di un presidente possono essere assai circoscritti. Evidente però è l’intenzione di mettere finalmente in asse retorica (estrema) e politiche, parole e atti, evitando quell’assenza di disciplina e quelle derive disfunzionali che contraddistinsero l’esperienza della prima amministrazione Trump.

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