Solamente dieci giorni fa, alla tradizionale cerimonia del club Valdai, il presidente Vladimir Putin, dopo essersi congratulato con Donald Trump per la vittoria elettorale, ha affermato che i propositi della nuova amministrazione presidenziale americana di porre fine alla guerra in Ucraina «meritano di essere presi in considerazione».

Da domenica, la notizia della revoca del divieto di attacchi a lungo raggio con i missili Usa voluta dal presidente uscente Joe Biden – che si applicherebbe solo alla regione russa di Kursk per impedire alla Corea del Nord «di inviare nuove truppe in Russia» – domina, invece, le pagine dei quotidiani internazionali e pone nuovi interrogativi sulla strategia che i partner occidentali intendono mettere in atto dopo i primi mille giorni di guerra in Ucraina.

Si tratta dell’ennesima dichiarazione di un leader occidentale a cui non seguiranno i fatti? È stata espressa per “testare” le reazioni del Cremlino? È un tentativo di destabilizzare l’inizio della seconda legislatura di Trump alla Casa Bianca ovvero è stata una decisione condivisa da Biden con il nuovo presidente durante l’ultimo incontro? È una mossa per rafforzare la posizione ucraina sul terreno in previsione dell’avvio di un eventuale negoziato? È una decisione obbligata per difendere i militari ucraini sotto assedio a Kursk con la complicità di truppe nordcoreane e in previsione del fatto che Pyongyang invii addirittura 10mila soldati in sostegno all’esercito russo? Ci sarebbe anche una reazione da parte nordcoreana?

Le supposizioni potrebbero continuare e, al momento, non ci sono ulteriori elementi a sostegno di una sola ipotesi che possa scartare tutte le altre.

Nel frattempo, il Cremlino non ha ricevuto alcuna conferma ufficiale sulle indiscrezioni mediatiche, ma fa sapere che «se tale decisione è stata effettivamente formulata e comunicata a Kyiv, si tratta di un nuovo ciclo di tensione e di una situazione qualitativamente nuova in termini di coinvolgimento Usa». Sempre il portavoce presidenziale, Dmitrij Peskov afferma che «è chiaro che l’amministrazione uscente di Washington intende continuare a buttare “olio al fuoco”».

Per cercare di comprendere quale potrebbe essere la reazione del padrone di casa del Cremlino, possono essere utili le sue dichiarazioni dello scorso 12 settembre. In primo luogo, per Putin non saremmo dinanzi a un attacco diretto ucraino, che si sta già verificando da tempo con diversi droni sul territorio russo, ma a un vero e proprio coinvolgimento di armi di fabbricazione occidentale che richiedono per il loro utilizzo le competenze del personale militare altamente qualificato dei paesi Nato.

In secondo luogo, per lanciare questi missili sono necessari esclusivamente i dati di intelligence provenienti dai satelliti dell’Unione europea o degli Usa e Nato. Sulla base di questi due principi, il presidente russo si era così espresso: «Se questa decisione verrà presa, ciò significherà niente di meno che la partecipazione diretta dei paesi della Nato, degli Stati Uniti e dei paesi europei, alla guerra in Ucraina. (…) Ciò significherà che (…) sono in guerra con la Russia. E se è così, allora, tenendo presente il cambiamento nell’essenza stessa di questo conflitto, prenderemo le decisioni appropriate in base alle minacce che verranno create per noi».

In base ai principi della dottrina militare russa, non vi è dubbio che lo scenario del coinvolgimento diretto della Nato farebbe passare il conflitto da scala regionale a internazionale.

È chiaro che se nel territorio russo dovessero arrivare i missili Atacms, il presidente sarebbe costretto a rilasciare una dichiarazione pubblica, fomentando ancora di più l’antioccidentalismo, perno del suo conservatorismo, e richiamando a sé il sostegno del popolo russo in difesa della patria. Dal punto di vista della politica domestica, è bene rammentare che un attacco di questo tipo, come d’altronde sono stati presentati nei media statali anche quelli ucraini in quest’ultimo anno, rafforzerebbe e non indebolirebbe il presidente Putin.

Le questioni dirimenti sulle quali dovremmo ragionare senza tifo e con sana autocritica sono: con quale strategia e con quali risultati i governi occidentali hanno sostenuto sinora il governo di Volodomyr Zelensky?

A mille giorni dall’aggressione russa contro l’Ucraina, tutte le previsioni dei tifosi della guerra a oltranza e della sconfitta della Russia sono state disattese: dal crollo economico alla malattia di Putin, al ruolo degli oligarchi, alla rivolta del popolo russo, a un esercito privo di armi e impreparato, ecc.

Al contrario, è bastata una telefonata del cancelliere Olaf Scholz a Putin per ricordarci quanto possa essere ancora devastante l’effetto di un attacco russo di 120 missili e 90 droni in Ucraina.

Molto inchiostro è stato utilizzato per prevedere cosa avrebbe fatto Trump in Ucraina, mentre abbiamo perso di vista, evidentemente, cosa ancora rimane a Biden da fare in questi due ultimi mesi e con quali conseguenze per il popolo ucraino.

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