Quando si avvicinano le elezioni presidenziali americane, in Russia circola il detto che la scelta del nuovo presidente è «uno dei più importanti eventi della politica interna russa». A ragion veduta, per l’élite russa e gran parte dei cittadini, gli Stati Uniti costituiscono il principale nemico storico che mina la sicurezza del paese.

L’imperialismo americano è sempre stato, infatti, considerato e trattato come uno strumento imprescindibile di costruzione nell’immaginario collettivo di quel “nemico” di schmitteriana memoria, necessario per giustificare e legittimare qualsiasi azione intrapresa dal capo del Cremlino.

Quattro anni fa, le rilevazioni dell’istituto di ricerca indipendente, Levada Center, riportavano che il 65 per cento del campione intervistato non era particolarmente interessato alla competizione americana, ma, ad una domanda più specifica, gli intervistati si erano espressi per il 16 per cento a favore di Donald Trump, il 9 per cento per Joe Biden, mentre il 10 per cento non sapeva rispondere. Trump era considerato «un amico della Russia» e del suo presidente con il quale avviare un «sereno» dialogo dopo la politica antirussa implementata dal suo predecessore, Barack Obama.

Le aspettative russe erano piuttosto alte, anche all’interno delle fazioni del Cremlino, ma quasi subito smentite nei fatti dalle parole e dalle azioni del neoeletto Trump che, verso la fine del suo mandato, era ormai ritenuto un personaggio inaffidabile negli ambienti moscoviti.

Non deve stupire, pertanto, il fatto che anche questa volta le elezioni americane siano state oggetto di analisi da parte di diversi istituti russi di sondaggio, così come nel mondo occidentale analisti e media si siano posti la questione di quale dei due candidati sia maggiormente apprezzato dal regime putiniano, soprattutto alla luce dell’andamento della guerra russo-ucraina.

Cosa pensano i russi

Utilizzando sempre i dati dell’istituto Levada Center che ha condotto una rilevazione a fine ottobre, si evince che alla metà degli intervistati «non importa chi diventerà il prossimo presidente degli Stati Uniti» perché «non cambieranno le relazioni russo-americane», sebbene un terzo sia fiducioso che Trump possa essere il presidente “migliore per la Russia”.

Tuttavia, in questi ultimi quattro anni la fiducia dei russi nei confronti di Trump è aumentata. Quali sono le motivazioni?

La risposta è molto semplice e chiama in causa - per la maggior parte dei russi - la “responsabilità” dell’avvio della cosiddetta “operazione speciale militare” alla gestione politica della presidenza di Biden: «Questo non è accaduto sotto Trump». Il presidente democratico è stato percepito come la massima espressione del sentimento americano che «porta avanti una politica antirussa, fornisce armi all’Ucraina, impone sanzioni, detta la sua volontà ad altri paesi e inizia guerre in tutto il mondo».

Ecco perché l’opinione pubblica russa auspica che il presidente Trump possa facilitare i negoziati di pace con l’Ucraina in una fase in cui più della metà dei russi è ormai favorevole a questo tipo di soluzione.

Le valutazioni del Cremlino

Questa “timida” speranza riposta nella figura di Trump risiede anche al Cremlino? In realtà, sin dalle elezioni 2016 le diverse fazioni politiche che ruotano attorno alla figura del presidente Putin hanno espresso pareri discordanti: da un Trump definito come «una variabile pazza» per la stabilità del sistema internazionale, un mero «elemento di debolezza della politica interna americana» ad «amico di Putin».

Biden ha rappresentato la continuità della politica obamiana, caratterizzata da una «tagliente retorica antirussa», ma Trump, ad esempio, non ha eliminato le sanzioni contro la Russia dopo l’illegale annessione della Crimea, ha autorizzato l’invio di armi letali in Ucraina, non ha sostanzialmente migliorato le relazioni con la Russia.

Queste sono alcune delle motivazioni che hanno indotto l’élite russa a diffidare sempre più del tycoon americano. Tant’è vero che in questi giorni l’ex presidente russo, Dmitrij Medvedev, dal suo canale Telegram ha asserito che non nutre «grandi aspettative» per le elezioni americane in quanto non cambieranno nulla perché non può «fermare la guerra in un giorno, in tre giorni, in tre mesi».

Dello stesso avviso è il ministro degli affari esteri russo, Sergej Lavrov, per il quale «chiunque vinca le elezioni, non si prevede un cambiamento dell’America nel suo atteggiamento russofobico».

In effetti, siamo dinanzi ad un cambiamento epocale del sistema internazionale e delle relazioni tra gli Stati che non facilita la ripresa di alcun dialogo della Russia revisionista con gli Stati Uniti: gli obiettivi principali del Cremlino sono l’indebolimento dell’egemonia americana e garantire la sicurezza del proprio paese.

Sulla base di questi elementi, è difficile affermare con certezza che la vittoria di Trump riporterà l’orologio indietro di qualche decennio per “recuperare” la Russia e allontanarla dalla sua “amicizia illimitata” con Xi Jin Ping. La Cina rimane la priorità strategica della presidenza americana repubblicana al pari di quella democratica, ma la Russia di Putin, nella sua concezione euroasiatica, non ha alcuna intenzione di cambiare verso alla storia dei prossimi anni.

I conti senza l’oste

Rimane la questione su cui i leader europei, analisti, giornalisti e politici nel mondo occidentale discutono dall’inizio dell’aggressione russa contro l’Ucraina e ripresa alla notizia della rielezione di Trump: e adesso cosa accadrà?

Diverse analisi sostengono che la presidenza Trump costituisce una maggiore garanzia per i negoziati perché favorirebbe il riconoscimento della situazione sul campo a favore dei russi. Storicamente le guerre finiscono, congelando la situazione emersa sul campo: non è da escludere che anche una presidenza di Kamala Harris nel tempo avrebbe potuto raggiungere questo esito, soprattutto nel caso in cui il “piano di vittoria” di Volodomyr Zelensky fosse fallito.

È una questione di timing in cui, forse, Trump potrebbe accelerare la tempistica di un “cessate il fuoco”. Ma il rischio è di fare i conti senza l’oste russo.

Al Cremlino, paradossalmente, conveniva la vittoria della rappresentante democratica perché avrebbe favorito la “strategia di logoramento” avviata da Putin, il mantenimento dello stato dell’economia di guerra e del “nemico storico” da cui difendersi; il tutto in un’ottica di autoperpetuazione della leadership putiniana.

Inoltre: perché Putin dovrebbe concedere a Trump lo scettro di “pacificatore” del conflitto? Quali benefici otterrebbe da “capitalizzare” dinanzi all’opinione pubblica russa? Cosa darebbe in cambio Trump per convincere l’orso russo a ritornare nella foresta?

La verità è che Putin potrebbe anche dimostrare ai russi, che vogliono un negoziato, di avviare un dialogo con Trump su quest’eventualità, ma bisogna tenere in considerazione quanto le scelte di Trump saranno rallentate dal congresso e se conclusa la sua legislatura Putin coglierà l’occasione per riavviare il conflitto in previsione delle elezioni presidenziali del 2030.

Non solo. Come dominus nell’estero vicino, quindi anche in Ucraina, la strategia russa si è sempre basata sul concetto, concepito dal generale Valerij Gerasimov, di «instabilità controllata» che trae il massimo vantaggio da una situazione destabilizzante all’interno di uno Stato post-sovietico.

È bene, quindi, evitare analisi superficiali, spesso influenzate dal tifo, e non aspettarsi una risoluzione definitiva delle crisi internazionali in atto. I leader europei sono avvertiti.

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