Nel dibattito di Philadelphia Kamala Harris ha mostrato come si combatte Donald Trump, non come si vincono le elezioni. Le cose non coincidono.

Fra le parole più ripetute dai commentatori c’è “bait”, esca, perché la vicepresidente è stata magistrale nel piazzare esche a cui l’avversario ha abboccato in pieno: lo ha punzecchiato sui comizi noiosi che la gente abbandona, sui leader internazionali che ridono di lui, lo ha chiamato una “disgrazia”, gli ha detto che è “debole”, usando appositamente i suoi insulti preferiti. Lui non ha resistito e si è lasciato trasportare dove voleva lei, fino alla folle apoteosi su cani, gatti, oche e altri animali domestici mangiati dagli immigrati haitiani in Ohio, un meme che funziona fra gli scalmanati su 4chan ma diventa grottesco quando viene pronunciato in un dibattito presidenziale.

Harris si è presa un rischio calcolato mettendo il dito su tutti i punti scoperti dell’ego narcisistico di Trump. Lui avrebbe potuto lasciar cadere gli spunti per riprendere in mano il pallino del dibattito, ma non lo ha fatto. Così Harris ha neutralizzato la sua abituale retorica prevaricatrice, mettendolo in una posizione difensiva che gli ha fatto perdere il piglio aggressivo e l’eloquio vacuo nei contenuti ma implacabile nella performance. È un risultato enorme.

Harris, però, ha bisogno anche di altro per vincere. Deve raccontare sé stessa e la sua visione dell’America, deve guadagnare fiducia, spiegare ragioni positive per cui gli elettori – soprattutto gli indecisi e i democratici disillusi – dovrebbero votarla a novembre. Deve in qualche modo giustificare il fatto che nel giro di poche settimane è passata nel racconto pubblico da vicepresidente mediocre a erede naturale di Obama. Il dibattito televisivo non era il contesto giusto per segnare punti in questa direzione, e gli strateghi democratici hanno capito (correttamente) che non valeva nemmeno la pena provarci.

Questo non la esime dal lavoro elettorale che a Trump è risparmiato, per via di una asimmetria strutturale nella contesa. L’ex presidente può soltanto puntare sulla radicalizzazione e sulla mobilitazione dell’elettorato che è già dalla sua parte, scommettendo che questo gli basti per conquistare la maggioranza dei grandi elettori.

Non ha mostrato di voler allargare la sua base elettorale, e la scelta di J.D. Vance come candidato vicepresidente non ha fatto che confermare lo schema di gioco. Harris invece deve rivitalizzare un mondo democratico demotivato e andare a cercare elettori indecisi, ai quali può sostanzialmente offrire l’immagine rassicurante di candidata affidabile, razionale, logica, disciplinata e perfino prevedibile, caratteristiche che nell’odierno mercato delle emozioni politiche non godono di ottime quotazioni.

Quando è diventata la candidata ha generato una grande quantità di entusiasmo ed è stata protagonista di una convention trionfale a Chicago, ma ha parlato molto poco con i media, anche quelli meglio disposti nei suoi confronti, e nel frattempo i sondaggi mostrano che la luna di miele è finita, il capitale emotivo si è in parte eroso e lei è tornata a essere l’underdog, come continua a ripetere.

Umiliare Trump in tv è importante – e infatti Harris vuole ripetere l’operazione – ma non è sufficiente. Del resto, anche Hillary Clinton aveva battuto Trump a parole per tre volte.

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