Sembra una distopia, ma i segni della torsione autoritaria che unisce in un filo rosso gli Stati Uniti del tycoon, la Russia, Israele e la Turchia si stanno moltiplicando
Si sta profilando un nuovo “asse del male” termine con il quale Bush junior e tanti suoi emuli definirono le autocrazie che volevano attaccare l’Occidente. Ora il nuovo asse parte da Mosca e si snoda per Ankara, Tel Aviv fino ad e arrivare a Washington.
Sembra una distopia alla Philip Roth quando scrisse, nel 2004, Il complotto contro l’America immaginando la conquista della Casa Bianca da parte di un filo-fascista e l’inizio della trasformazione degli Stati Uniti in un regime autoritario e antisemita.
I segni di un percorso in questa direzione ci sono tutti, ma si fatica ad accettarli perché le nostre immagini di paesi come Israele e Stati Uniti sono ben diverse, ed è terribilmente difficile accettare un realtà che non ci piace, e ci disturba profondamente. Certo, dalla Russia non ci aspettiamo nulla. Il momento di una possibile transizione di regime, con le grandi manifestazioni antiputiniane guidate da Alexey Navalny, all’inizio degli anni 2010, si chiuse rapidamente.
L’invasione della Crimea servì al Cremlino a infiammare il nazionalismo russo e, di conseguenza, a spegnere le mobilitazioni. Da allora è stato un crescendo di repressione e autoritarismo per arrivare al naturale sbocco di regimi come questi: la guerra.
La Turchia rimane in bilico tra autocrazia e apertura. Tanti sono gli interrogativi che circondano questo paese, a iniziare dal fallito golpe del 2016 che non riuscì per un soffio. Chi lo organizzò, quale ruolo ebbero gli Stati Uniti. Erdogan individuò in Fetullah Gülen, il fondatore di una confraternita modernizzante e grande nemico del presidente turco, il responsabile di tutto ciò. Ma era un facile capro espiatorio.
Da allora la repressione interna si è intensificata ed Erdogan manovra la giustizia per incarcerare ad libitum i suoi oppositori. La condanna del carcere a vita all’attivista per i diritti civili Osman Kavala, difensore di Gezi Park dalla speculazione edilizia, la recente retata di giornalisti e oppositori, e l’incarcerazione del sindaco di Istambul, temibile concorrente del sultano, hanno ulteriormente aggravato la posizione della Turchia. Infatti, Reporters sans frontières classifica il paese al 158 posto per libertà di informazione, di qualche gradino appena sopra la Russia che è al 162°.
Poi si arriva al caso più spinoso, e per certi aspetti più doloroso, Israele. Questo paese è stato una democrazia tout court tra le più vitali e a lungo è riuscito a conciliare, in qualche modo, il suo stato di guerra permanente e l’occupazione militare dei territori con lo stato di diritto, tanto che i palestinesi potevano appellarsi anch’essi alla Corte Suprema. Il lungo regno di Benjamin Netanyahu e l’avanzare della destra fondamentalista ha sfigurato quell’immagine.
La ferocia con cui sta conducendo la campagna di sterminio degli abitanti di Gaza, e la colonizzazione della Cisgiordania, offuscano le massicce proteste dei cittadini israeliani contro le manovre del governo per mettere al suo servizio la magistratura.
Un solo dato, incontrovertibile, dà la misura della violenza indiscriminata abbattutasi su Gaza: secondo l’Unicef più di 3000 bambini hanno avuto un arto imputato, la cifra più alta mai registrata finora in un conflitto. E anche Israele cerca di mettere a tacere le voci scomode con il carcere o con l’eliminazione fisica, sorte toccata a centinaia di giornalisti palestinesi. Tant’è che ora è precipitato al 101 posto quanto a libertà di informazione.
Infine gli Stati Uniti. Qui il cambio di passo è letteralmente sconvolgente, perché sconvolge tutte le coordinate politico-culturali a cui siamo abituati dal dopoguerra. Gli Usa sono sempre stati un paese violento, basti pensare al tasso di carcerati stratosfericamente superiore a quello di ogni paese europeo. E quindi che il ministro degli Interni si presenti con un cappellino da baseball che nasconde il suo volto bamboleggiante di fronte a una gabbia di uomini seminudi non sorprende più di tanto: ricorda la vergogna di Abu Ghraib, quella montagna di detenuti iracheni trattati come bestie al macello.
Allora ci furono denunce e processi. Oggi ci sono i like. Dagli Stati Uniti trumpiani ci dobbiamo aspettare di tutto: siamo in piena distopia fatta realtà. Meglio prepararsi allo sbarco dei marines in Groenlandia. Sempre che non vengano a bivaccare a Piazza a San Pietro al posto dei cosacchi quarantotteschi.
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