Se negli Stati Uniti, il primo dibattito televisivo tra Joe Biden e lo sfidante Donald Trump ha indubbiamente determinato un’accelerazione della crisi politica all’interno del partito democratico, alimentata negli ultimi mesi anche dal dibattito sul deficit cognitivo del presidente in carica, in Russia non ha destato, invece, una particolare sorpresa l’epilogo del ritiro dalla competizione elettorale del presidente Biden.

In primo luogo, è dal 2020 che i social media e i talk televisivi diffondono meme e video nei quali le condizioni fisiche e psichiche di Biden sono oggetto di derisione, cercando, in taluni casi, di associarle al declino della leadership della superpotenza americana nell’ordine internazionale.

In secondo luogo, l’approccio di base della propaganda russa si è basato essenzialmente nell’ampia diffusione di un messaggio in base al quale, in un rapporto inversamente proporzionale, all’aumento della sfida delle potenze revisioniste (Russia e Cina in primis) agli Usa, si è evidenziato un declino dell’egemonia americana nel mondo globale.

Stress test

In sintonia con questa interpretazione, ampiamente diffusa nell’élite russa, rientra anche la strategia della «guerra di logoramento» dell’Occidente, lanciata dal presidente Vladimir Putin con l’invasione russa in Ucraina nel febbraio 2022, che poggia sull’ipotesi di un probabile disimpegno americano nel medio – lungo periodo anche qualora fosse riconfermato il presidente Biden alle prossime elezioni presidenziali.

Come abbiamo ricordato nel dicembre 2023 in queste pagine, i “classici” delle teorie delle relazioni internazionali ci hanno fornito diversi elementi per ipotizzare che anche l’amministrazione presidenziale americana, guidata in un secondo mandato di Biden, avrebbe dovuto, comunque, valutare come affrontare il rischio dell’overstretching degli impegni di una superpotenza ovvero come sostenere risorse militari, economiche e politiche nel lungo periodo su diversi fronti.

A tal riguardo, un incandescente Medio Oriente e una postura cinese sempre più assertiva nell’Indo Pacifico sono proprio stress test che sia Kamala Harris sia Trump come presidenti in pectore avrebbero tra le priorità dell’agenda politica estera e internazionale americana.

Sotto questo aspetto, potrebbe, quindi, non essere del tutto inverosimile che per il Cremlino sia indifferente la questione di “chi” risiederà alla Casa Bianca. Come ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov nel canale Shot Telegram: «Mancano ancora quattro mesi alle elezioni, e questo è un lungo periodo durante il quale molte cose possono cambiare. Dobbiamo prestare attenzione e guardare cosa succederà dopo. La nostra priorità è raggiungere gli obiettivi del Distretto Militare Centrale non i risultati delle elezioni negli Stati Uniti».

Il ruolo di Trump

Inoltre, troppo frettolosamente e superficialmente si è diffusa la convinzione tra alcuni analisti e opinionisti occidentali (e italiani) che la presidenza di Trump (2016-2020) sia sempre stata in favore della Russia e, quindi, una sua rielezione comporterebbe la resa dell’Ucraina.

Anche in questo caso, rigorose analisi politologiche hanno evidenziato come la politica estera durante la presidenza di Trump sia stata sostanzialmente in continuità con quella precedente di Barack Obama per quanto riguarda, ad esempio, il sostegno militare all’Ucraina che non è mai stato interrotto, il ritiro degli Usa dal trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) dove Trump accusa la Russia di non aver rispettato l'accordo e la firma della legge statunitense sulle sanzioni contro Mosca.

In realtà, la presidenza Trump è stata una delusione per il Cremlino che è culminata con il diniego della Casa Bianca di organizzare un summit con il presidente russo a margine del G20 in Argentina nel novembre 2018.

Per il Cremlino potrebbe veramente essere meglio una presidenza a guida democratica perché più prevedibile e meglio conosciuta sia nelle competenze del personale politico dell’amministrazione presidenziale che si occupa di politica estera sia nella strutturazione delle policy su alcuni dossier rilevanti.

Semmai, è proprio su quel «dopo» a cui accenna Peskov, che si può eventualmente individuare una diversa strategia nel sostegno militare all’Ucraina tra la presidenza di Trump rispetto a quella della Harris. Al netto delle dichiarazioni del tycoon americano che garantirebbe la fine della guerra in Ucraina «in un solo giorno», è il fattore “tempo” che farebbe realmente la differenza. Con Trump il conflitto potrebbe concludersi già nei primi mesi del 2025, con Harris e un Congresso a maggioranza democratica, vi sarebbe, invece, la continuità delle politiche sinora implementate da Biden.

Tuttavia, è forse più opportuno abbandonare la questione delle preferenze del Cremlino per concentrarsi su ciò che conviene effettivamente a Putin: proseguire la guerra, raggiungere un accordo da una posizione di forza, congelare il conflitto per un periodo determinato, per poi valutare se e quando riprenderlo.

Con tutte queste variabili che possono cambiare da un momento all’altro, l’unica certezza che si sta palesando all’orizzonte è come si sta muovendo la Cina sia in Medio Oriente sia in Ucraina: è un interlocutore credibile, una minaccia più che concreta per qualsiasi presidente americano.

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