È morto a Milano il fotografo Giovanni Chiaramonte, uno dei maestri della fotografia europea degli ultimi decenni. Aveva 75 anni. Riproponiamo qui il testo che il critico americano Teju Cole ha scritto nel 2022 per il catalogo della mostra “Realismo infinito”
La luce entrava in camera da letto passando per una fessura tra le tende che fermavano la luce, per poi toccare il bordo di uno specchio appeso al muro. Lo specchio, un quadrato di poco più di venti centimetri, aveva una cornice in legno antico fittamente intagliato, di un grigio sbiadito dal tempo.
Una strana ombra si stagliava dalla cornice lungo tutto il muro, così da far sembrare lo specchio un oggetto di scena. Pur essendo ancora in parte immerso nel sonno, sapevo, senza troppo pensarci, quello che dovevo fare: dovevo cercare di fare una fotografia a questa veduta. Mi sono alzato di scatto e sono sceso al piano inferiore a prendere la fotocamera, il cavalletto e la piastra di aggancio rapido.
Nel giro di due minuti avevo radunato tutto, e al mio ritorno in camera la luce era ancora come l’avevo lasciata. Ho assemblato l’attrezzatura, messo a fuoco l’obbiettivo, e fatto scattare l’otturatore. Il cavalletto era troppo basso, e guardava allo specchio da sotto in su. Per ottenere la composizione che avevo in mente, mi serviva un punto più alto, più allineato allo specchio. Ho allungato le gambe del cavalletto, rimesso a fuoco l’obbiettivo, e ho fatto scattare l’otturatore una seconda volta. Ma in quei venticinque secondi che mi ci erano voluti, la luce nella stanza era cambiata.
In realtà, se n’era andata, sostituita da un senso di opacità e piattezza. Ora avevo la prima fotografia, con un’angolatura sbagliata ma una luce incredibile, e la seconda immagine, con una bella composizione ma con la luce sbagliata. Due fallimenti di modesta entità, che non mi giungevano però di sorpresa, perché so che la luce è sempre sul punto di andarsene.
Che arte strana e sublime, la nostra, così dipendente da un elemento tanto capriccioso. Chi lavora con le luci da studio, o con un flash, non è così dipendente dal sole. Ma per il resto, lo siamo quasi tutti, anche se non tutti abbiamo scelto di arrenderci a questa dipendenza.
Il sole come medium
Henri Cartier-Bresson, per esempio, preferiva i giorni in cui il sole era coperto, perché i suoi complicati giochi geometrici potessero essere condotti senza l’interferenza di ombre imprevedibili. Tra chi fotografa con la luce del sole c’è chi è semplicemente indifferente alla sua intensità (se c’è, bene, se non c’è, bene comunque), essendo più interessato al contenuto semantico delle foto che non al modo in cui il sole lo modifica. Ma tu sei diverso: per te il sole è medium e messaggio. E di certo questo sarà in parte dovuto, come spesso hai osservato, alle tue origini siciliane, alla tua memoria genetica di quel mondo saturo di sole contenuto in un altro mondo, in quel regno di illuminazione, lucentezza e Santa Lucia.
Non che la Sicilia o l’Italia limitino la tua immaginazione. Nessuno che abbia visto le immagini pubblicate in Realismo infinito potrebbe dubitare del tuo cosmopolitismo. La possibilità del viaggio significa che chi è abbastanza fortunato da viaggiare può espandere la sua visione personale fino a distanze straordinarie. Per qualcuno tale viaggio si rivela disorientante: affascinato dalla terra, si perde.
Per te, invece, i luoghi che hai fotografato dicono cose diverse ed emergono con una consistenza sonora, in un profondo canto personale. Se penso alle fotografie che hai messo in sequenza in questo libro, a questo paradiso grandangolare di immagini, mi ritrovo a immaginare la velocità di risposta a cui devi essere ricorso, di volta in volta, per creare questa impressionante stabilità. Tu sai quanto la luce desideri andarsene via, e devi aver saputo che cosa dire per convincerla a restare.
Il tempo sospeso
Guardando le tue foto, mi accorgo che hai compiuto un miracolo, che è un prolungarsi del miracolo originario inaugurato dalla fotografia, al tempo della sua invenzione, nella prima metà del diciannovesimo secolo: il miracolo del tempo sospeso, della luce trattenuta. In ognuna delle tue fotografie, percepisco questa presa, delicata ma inesorabile. Mi sembra che la tua fotocamera sia come Sherazade, e che abbia raccontato alla luce una storia, per convincerla ad aspettare ancora un po’. E poi un’altra storia, per convincerla ad aspettare un altro po’, e un’altra ancora, fino a che la luce ha scordato i suoi impegni, ha scordato dove stava andando alla velocità di quasi 300 milioni di metri al secondo, per rimanere per sempre nella tua foto, senza volerlo.
Osservando queste immagini, non siamo più assaliti da un senso di velocità irrefrenabile, quanto piuttosto da una percezione di collaborazione e di dialogo sottovoce tra uomo e sole. È questo, credo, il motivo per cui tutte le tue immagini sembrano appartenere a un mondo diverso dal nostro, un mondo nascosto dentro il mondo visibile, un mondo molto simile a quello ordinario, eppure tanto differente…
La tua fotocamera, nel lavoro di tanti anni, è stata una mano tesa, la mano di un amico gentile, a cui l’immagine si è affidata. Le tue fotografie sono il lavoro di chi ha osservato la storia e la modernità, senza però trascurarne una a favore dell’altra. Il territorio coperto dalla tua ricerca è molto esteso, però tu spesso arrivi a luoghi di profonda importanza archeologica, dove la storia ha lasciato depositi materiali sotto forma di pietre spezzate. Ma la tua ricerca vede questi luoghi così come sono, riconoscendo in essi una testimonianza archeologica che continua fino al presente, e che scorre decisa verso il domani.
Dove altri potrebbero lasciarsi sedurre da una nostalgia priva di pensiero (dopo tutto, la nostalgia è bella da vedere in fotografia), tu non cadi in questa trappola. Lo spettatore perciò incontra il tuo lavoro con sollievo, così come si incontra sempre l’onestà con sollievo. L’onestà qui è dovuta al fatto che l’immagine contiene, l’uno accanto all’altro, il passato e il presente, e ogni volta che troviamo il passato e il presente in questo modo, vi è la possibilità di un futuro.
Arte, fotografia
Ma com’è possibile che qualcuno abbia una voce personale in un’arte come la fotografia? Dopo tutto, la fotografia si trasmette mediante mezzi meccanici, anzi addirittura meccanicamente riproducibili, visto che le fotocamere, le pellicole, le soluzioni chimiche e la carta fotografica sono frutto di una produzione di massa. In teoria, la fotografia fatta da uno avrebbe potuto benissimo essere stata fatta da un altro. Ma non in pratica.
C’è chi parla ancora del contrasto tra arte e fotografia, con l’implicazione che il tratto distintivo di quello che viene chiamato arte sia un’emanazione diretta della creatività dell’autore, mentre invece la fotografia non può sfuggire alle sue origini meccaniche. Ma questo punto di vista comune mi sembra elidere quella che dovrebbe essere una verità auto-evidente: la fotografia, non meno del disegno o della pittura, è un’aggregazione di decisioni personali.
L’apparente istantaneità dell’otturatore che viene premuto non deve trarci in inganno. Quando guardiamo una fotografia, guardiamo ciò che il fotografo ha deciso di includere, ma anche l’assenza di ciò che è stato tolto dall’inquadratura. Ciò che c’è e ciò che non c’è, costituiscono insieme un albero ramificato di decisioni: la decisione di non includere un oggetto sulla destra, quella di stare un po’ più indietro, o di non fotografare in formato verticale, quella di usare una velocità dell’otturatore più lenta, o di svegliarsi presto, o di non fotografare dopo il tramonto, e così via, all’infinito.
Sono queste molteplici tangenti invisibili, lungamente controllate dall’attenzione che ogni fotografo rivolge ai propri parametri interiori, a creare la forma della fotografia che ci troviamo davanti: la composizione, il colore, la scala, i livelli di esposizione. Queste immagini sono create da un io tanto personale, intenzionale e particolare quanto l’io che disegna, scrive poesie, o compone musica. L’io di questo “realismo infinito” è presente in ogni fotografia tanto quanto lo sarebbe in un autoritratto. Questo io sei tu.
Immagini eterne
2. Al centro egli mette una solitaria colonna bianca, al cui lato c’è un vialetto di terra battuta davanti a una costruzione in mattoni, mentre dalla parte opposta una strada di asfalto si spinge verso una città distante, come se quella colonna bianca col capitello di acanto fosse una divisione tra due ere.
I lineamenti della testa scolpita, consumati dal tempo, evocano non solo la statua di Giovanni Battista nel momento del trionfo di Salomè, ma anche la tendenza di Caravaggio a fare, della sua testa mozzata, un autoritratto.
Questa è la prima delle sue immagini eterne in cui mi sono imbattuto, sospeso d’un tratto tra l’ariosità del marmo e la solidità della luce del sole che cadeva sulla terra rossa.
Nella luce che declina contro un cielo pallido color lavanda, egli assegna a ciascuno un ruolo in questo invisibile teatro: le figure umane ognuna al proprio posto, la scala che conduce al cielo, lo schermo bianco su cui sono scritti tutti i loro futuri.
Non è una coincidenza usare il termine sportivo “tempo supplementare” per i tanti ragazzi che in tanti luoghi, riluttanti ad accettare i pressanti richiami da casa, come disse Joyce, continuano a giocare finché i loro corpi splendono.
Egli vede che, oltre la devastazione operata da noi nel nome della “modernità”, nel disordine monocromatico dell’oggi, permane come rintocco di una campana la fermezza strutturale di un maestro del Rinascimento come Piero della Francesca.
A prescindere dalla questione se una rovina di marmo sia un’immagine di vittoria o di sconfitta, rimane la percezione che il bianco non è un colore, ma piuttosto tutti i colori insieme.
La sua fotocamera, nel suo lento sguardo, rispetto agli occhi ordinari, vede meglio che quanti sono usciti dal tempo possono essere più reali di coloro che ancora oggi ne subiscono il giogo.
Proprio come noi, sono incompleti l’angelo, la viola, l’archetto, eppure tutti, nella loro frammentarietà, sono partecipi di un’armonia implicita, come nelle Suites per violoncello di Bach, una musica composta da ciò che l’orecchio cuce con le note che ci sono con quelle che non ci sono.
Sotto un bosco di colonne imponenti, ci si ricorda di quello che Jane Hirshfield ebbe a dire della sequoia gigante: «dolcemente, con calma, l’immensità bussa alla tua vita».
Egli osserva la costruzione di un disadorno tratto suburbano con la stessa attenzione rivolta al tempio dorico di Segesta, perché lavora con il sole, e come lui predispone geometrie senza alcun pregiudizio.
Egli comprende in un solo gesto l’orizzonte e quelle vite inclinate, l’azzurro del cielo e quello dell’auto, e il paradosso è che sebbene l’aria non possa rivaleggiare col metallo quanto a permanenza del colore, i cieli ancora gli assomigliano, mentre le auto non più.
In contrappunto alla gigantesca solidità delle colonne totemiche, egli fotografa le figure umane, non come presenze etniche, ma come eleganti variazioni sul tema della verticalità.
E che si tratti di una città o di un villaggio, di una montagna o di una spiaggia, nonostante la varietà degli elementi verticali, dietro tutto, o forse al di sopra di tutto, sta il cantus firmus dell’orizzonte, quell’elemento che stabilizza il mondo al limite della visione, colto indelebilmente un istante prima che la luce svanisca.
Il testo è tratto dal catalogo “Realismo infinito” di Giovanni Chiaramonte, a cura di Corrado Benigni, pubblicato da Electa © Teju Cole. Per gentile concessione dell'autore.
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