Anche se a ovest il limite è segnato dalla laguna del mar Nero, nessuno direbbe mai che i georgiani sono gente di mare. Il piccolo e il grande Caucaso hanno infatti un ruolo ben più importante: separano il paese dall’Oriente e dalla Russia, e lo trasformano nell’ultimo avamposto dell’Europa, nell’ultima terra da formiche, prima della vastità
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
A Tbilisi, di fronte al parlamento, il popolo grida contro il governo («Schiavi della Russia!»), tiene alte le bandiere della Georgia e dell’Europa, e manda messaggi per far arrivare cibo e acqua. La violenza: quasi mai quella della protesta, sempre quella della repressione, delle forze armate in divisa e, peggio ancora, di quelle comparse a fine novembre, non regolari. Per la presidente filoeuropeista Salomé Zourabishvili: le peggiori.
Mettiamo insieme gas lacrimogeni, cannoni ad acqua, feriti, pallottole di gomma e detenzioni in posti sovraffollati, ecco la Georgia degli ultimi mesi. Che va in piazza sempre più forte e non viene ascoltata.
A maggio contro le «leggi russe», a fine ottobre per i brogli elettorali, e il 29 novembre a causa dell’annuncio più temuto: la sospensione, almeno fino al 2028, dei negoziati per l’adesione all’UE.
Guerra ibrida
Come definire una mossa del genere, quando l’80 per cento della popolazione si dichiara europeista?
Zourabishvili l’ha chiamata guerra ibrida del Cremlino, cioè subdola, che agisce senza carrarmati ma modifica l’assetto di uno stato, lo conquista e lo ingloba. Da anni, di notte, nelle regioni occupate come l’Ossezia, i soldati russi spostano i confini con il nastro, allargano i loro territori scavando fossi e mettendo del nuovo filo spinato.
Il governo ha paragonato le proteste alla rivoluzione di Maidan, avvenuta in Ucraina nel 2014, ma ha anche detto che è già tutto finito. Putin invece ha parlato di guerra civile, o almeno del rischio che possa scoppiare.
Ma una guerra civile non può esistere se il popolo è uno. Se non è nemico di sé stesso ma solo dell’oppressore. Se il popolo si sente georgiano e georgiano vuole essere e vuole restare.
I confini della Georgia sono fatti per lo più di montagne. Anche se a ovest il limite è segnato dalla laguna del Mar Nero, nessuno direbbe mai che i georgiani sono gente di mare.
Il piccolo e il grande Caucaso hanno infatti un ruolo ben più importante: separano il paese dall’Oriente e dalla Russia, e lo trasformano nell’ultimo avamposto dell’Europa, nell’ultima terra da formiche, prima della vastità. Al centro della Georgia ci sono i vigneti e i condomini sovietici, ai margini ci sono le montagne. Spioventi e inospitali, ma da sempre abitate da comunità di confine.
Le vie per raggiungerle sono spesso bloccate, il numero delle famiglie è ristretto e le usanze sono rimaste simili a quelle originarie, dove tribalismo, paganesimo e natura dialogano con la Chiesa Ortodossa e con l’Islam.
Popoli isolati
Negli anni, l’isolamento ha portato a questi popoli la libertà. Ne vanno fieri, la riconoscono, la identificano col selvaggio o con il cielo stellato o con nessuno che ti rompe le scatole per pagare qualcosa. Non c’è anima viva che chiuda la porta e che non stia ai suoi ritmi, anche se folli o sornioni, perché la libertà significa anche disconoscere il tempo dettato da fuori.
E io sono d’accordo, addirittura potrei pensare che è una fortuna. Se non fosse che l’isolamento non gli ha mai concesso la pace.
Le forze dell’avidità umana, d’altronde, agiscono meglio sempre ai confini. Il loro destino è incerto. La popolazione in calo.
Per scovare tutte le comunità della Georgia si dovrebbe camminare lungo i bordi per mesi, e a un certo punto si giungerebbe sicuramente alle porte di Omalo, in Tusheti, dove una radio resta accesa giorno e notte e racconta ai suoi abitanti cosa succede nel mondo. Si leggerebbe stop russia e no wi-fi sopra i muri di pietra nera caucasica e si brinderebbe di sicuro ai morti lungo la strada, perché i morti sono morti per proteggere i vivi che l’attraversano ancora.
Se si capitasse in autunno, si rimarrebbe intrappolati sotto la neve con una ventina di uomini-pastore ormai senza gregge, si dovrebbe attendere notti intere gli uni sugli altri come le bestie, davanti alla stufa. E poi, una volta arrivati a maggio, sarebbe trascorsa una vita.
A sud invece, s’incontrerebbero donne con i fazzoletti in testa che friggono dolci nello stesso olio in cui hanno cotto le trote. Si osserverebbero pescatori bucare il lago ghiacciato di Paravani, calarci lentamente un filo. Si troverebbero i ragazzini russi che giocano con i ragazzini armeni nel pomeriggio, chiari e scuri come il backgammon, ma poi gli armeni se ne vanno nella scuola armena e i russi nella scuola russa e buonanotte. In un’aula tutta dipinta con i fiori tipici dei Duchobory, ci sarebbe una ragazza che impara da sola con sua madre, che è la maestra.
Si vedrebbe che, al tramonto, i bambini lungo le strade di Orlovka corrono sempre in branco, e che la terra si alza sporcandogli un po’ la camicia. Il sole sarebbe ancora gelido sull’altopiano, e il freddo così secco che sembra polvere.
A nord, ceneremmo poi con rifugiati che intonano canzoni sulle loro vecchie città occupate e, i viaggiatori più fortunati, potrebbero assistere a riti e sacrifici brutali sulle cime più alte dell’est.
Forse non basterebbero anni, e nemmeno una specialissima mappa, per incontrarli tutti, ma nella Georgia rurale e montana ci sono russi, ceceni, armeni, greci e azeri che girano con documenti georgiani ma guidano automobili russe; che celebrano le feste cristiane ma professano un certo animismo; che pregano in arabo Allah, o in Batsi qualche dio pagano, ma bevono la stessa violentissima Chacha; che scrivono con alfabeti diversi e che hanno facce siberiane, o nasi adunchi e barbe nere. Si sentono georgiani?
Alcuni sì. E tra questi ci sono i Kist.
La comunità Kist
Visitare questa comunità è molto più semplice che andare in molte altre parti del Caucaso. Le strade, anche se senza asfalto, sono dritte e pianeggianti, e poi la gente parla ceceno, non un dialetto strano, e cucina i migliori khinkali di tutta la Georgia. A dire il vero però, la Farnesina lo sconsiglia. E nessun ambasciatore italiano può ancora arrivare fin qui.
Dopo aver a lungo evitato le ricerche su Google, proprio come evito di cliccare sui siti che illustrano sintomatologie di malattie che non ho (o che forse ho), sono approdata, ignara ma con sospetto, in questa valle. Una volta arrivata però, ho ricevuto un link, l’ho aperto e l’articolo si intitolava così: From Terror to Tourism. E a me, entrambe le cose mi spaventano molto.
Quando chiedi a un ragazzo Kist di presentarsi, è come se l’avesse imparato a memoria: nome, cognome e poi due formule, sempre nello stesso ordine: «I’m Georgian and I am Kist».
Che a guardare la cultura, le tradizioni e perfino la fisionomia dei volti, sembrano due cose molto distanti. Anche il fatto che lo dicano in inglese è strano, lingua che nel resto del paese rimane ancora sconosciuta.
Può succedere, a volte, che l’esperienza di un luogo pericoloso contraddica la storia che ne è stata fatta; e se c’è qualcosa più difficile da accettare della paura, è che il pericolo non venga scovato mai. Che possa essere finito, oppure nascosto.
I Kist sono una comunità ceceno-musulmana che vive nella valle del Pankisi, sotto la montagna che divide la Georgia dalla Cecenia. Duecento anni fa sono scappati dalla Russia, hanno fondato Duisi, e dopo anche gli altri sette villaggi, quasi tutti che fanno rima col primo.
La comunità è stata per quasi un secolo divisa in confraternite sufiste, corrente mistica ed esoterica dell’Islam, alcuni dicono pre-islamica, ma certamente più moderata.
Alla fine degli anni Novanta però, sono arrivati migliaia di rifugiati dalla guerra russo-cecena, la popolazione è raddoppiata, e con loro è arrivato anche il wahabismo, più ortodosso, che ha creato una spaccatura all’interno della comunità.
Signori della guerra e capi-macellai come Shamil Basaev, eroe della prima guerra, o Omar il Ceceno, divenuto poi Ministro del Califfato, hanno trovato a Pankisi terreno fertile per convincere gli uomini a impegnarsi nel jihād. Uno tra tutti gli adepti: Akhmet Chataev, responsabile dell’attacco all’aeroporto Atatürk di Istanbul nel 2016.
I giornali si sono riempiti subito di: Pankisi, Isis d’europa, Pankisi, terra di terroristi.
Eppure, arrivando nella valle, il fiume Alazani continua a scorrere con la forza di un fiume giovane e glaciale, e i cavalli bassi, chissà perché negli altipiani sono sempre così minuti, pascolano liberi come in un quadro. Perfino i giardini sono più curati che in qualsiasi altro paese della Georgia (scoprirò presto che il Consiglio degli anziani ha messo una regola vera e propria sulla cura dei giardini) e, con l’istinto primordiale di descrivere un luogo attraverso i luoghi più familiari, io lo chiamerei: il Canton Ticino georgiano; o ancora meglio: Pankisi-Paradiso, se consideriamo l’infanzia e le sue merendine un luogo limpido e chiaro.
Ma etichettare un posto come «Isis d’Europa» oscura quasi tutte le buone impressioni.
La gentilezza è scambiata per seduzione, gli sguardi per velate minacce.
La parola «terrorista» è un marchio sulla pelle di ogni Kist, è una scongiura, probabilmente un’ingiustizia, ma che riduce all’osso un fatto: nel 2014 molti giovani di Pankisi si sono arruolati per andare a combattere in Siria.
Il capo della vecchia moschea ci spiega che sono partiti quaranta ragazzi, alcuni documenti sui servizi di sicurezza di Stato riportano cinquanta. E mettiamoci insieme le loro mogli, spesso altri membri della famiglia.
Una percentuale altissima. Ma che non dovrebbe stupire.
Come si sveglia un georgiano
I caucasici sono famosi da tempo per la loro forza militare, e il motivo riguarda operazioni molto meno recenti.
Durante la guerra fredda, e poi durante le due guerre d’indipendenza della Cecenia, gli Stati Uniti hanno cominciato un addestramento speciale su alcuni gruppi militari della zona, soprattutto sui più fanatici, poiché con loro condividevano la stessa minaccia.
Ma un soldato ben allenato è più forte o più debole di uno che crede in quello che uccide? Gli americani hanno portato avanti una strategia quasi infallibile: quella di unire l’odio e l’addestramento, creando alcune tra le truppe più spietate della storia del Novecento. Tuttavia, decenni dopo, è stato facile far passare questi ragazzi dalla Russia alla Siria, e non solo facendo leva sulla fede, ma anche sulle poche prospettive di chi sarebbe rimasto a Pankisi.
È il 2016.
Per la legge secondo cui chi ha il potere di fare ha anche il potere di disfare le cose, un raid a stelle e strisce distrugge la base siriana dove si nascondono Omar il Ceceno e altri ragazzi Kist. Indietro, non tornerà mai nessuno.
Poco tempo dopo, le madri e le donne si appellano, con voce arrabbiata e straziante, al governo georgiano.
Prima di quel momento, non solo la comunità è rimasta isolata, ma ci sono casi archiviati o sospesi che denunciano l’abuso di potere delle autorità georgiane sui Kist. Facendo leva sul terrorismo, gli agenti statali hanno perfino portato a termine alcuni blitz nei villaggi di Pankisi, e più di un giovane è rimasto ucciso.
Perché è un’idea, quella giustifica un intero stato, è una convinzione indiscussa che lo esonera dal prendersi la responsabilità su questa faccenda: che alla base di un arruolamento volontario c’è solo la religione.
Ma nel 2016 le donne Kist danno un’altra risposta: no, non è colpa dell’Islam.
È l’isolamento, la miseria, la disoccupazione, la chiusura. È il fatto che i giovani non ricevono altra istruzione che quella data dall’Imam, e che non c’è prospettiva.
Così negli ultimi anni sono successe due cose che stanno agli antipodi: da una parte alcuni esponenti islamici hanno continuato a diffondere idee radicali, dall’altra un’associazione americana ha fondato una scuola dove insegna l’inglese e offre lavoro alle donne.
Adesso i ragazzi non dicono più «my dream» ma «my goal», poi però alcuni proseguono con «è andare in Arabia Saudita» e altri «è studiare nelle migliori università californiane».
Certo, è solo una valle, ma è un organismo complesso, dove vengono mostrate le spade degli antenati e dove la parola «strenght» si accompagna sempre alla parola «peace», con lo stesso desiderio e lo stesso tono assertivo.
Quando si entra a Pankisi, si viene sballottati nelle buche e guardati con sospetto.
La gente recita discorsi da brochure, offre dolcetti al burro d’arachidi e tinge tutti gli interni di bianco, i lampadari d’argento, i divani su cui ti fanno sedere sono imbottiti e incellofanati. Sembra di stare in un reality show ideato per giornalisti: al primo giorno mi battono i denti ma al settimo mi sento un apostolo ceceno-italiano. Mi pare di ascoltare condannati innocenti, e non so se sia davvero così, ma non si distingue il reale dal costruito quando si tenta così disperatamente un riscatto.
C’è questa storia sui Kist che parla di una donna e del suo bambino. Che sia una leggenda oppure no, è una storia così triste che chi la dice prova pietà, e chi l’ascolta finisce per crederci, e fa più o meno così:
Un giorno, alcuni ricercati dalla polizia arrivano a Pankisi. Gli abitanti, reputando i rifugiati nel giusto, decidono di nasconderli, e la polizia georgiana decide di irrompere nelle case e interrogare tutti quanti. A un certo punto arriva dalla donna con il bambino, le chiedono informazioni ma lei tace. Lei sa, chiaramente, ma tace.
I soldati allora la minacciano di uccidere il figlio davanti ai suoi occhi.
Lei non proferisce parola e loro lo ammazzano, nella culla.
Me la racconta una donna che si chiama Meka Khangoshvili, consigliera del primo ministro per la riconciliazione, o per l’integrazione, o per l’uguaglianza dei popoli, ovunque la cerco la definizione cambia, ma il senso no. Ci fa attendere, scalzi, all’ingresso di casa sua, poi delle bambine vestite come aristocratiche dell’800 vengono a infilarci delle pantofoline ai piedi. Subito scappano in cucina per non farsi vedere, ma si sente che ci spiano e che ridono dietro la serratura.
Meka conserva con orgoglio la spada del nonno, nonno che all’età di sei anni uccise un nemico sguainando proprio quel pugnale. È pesante e una bambina ce lo porta via dopo che ce lo siamo rigirato dalle mani.
Anche il nipote di Meka fa leva su questa beneamata forza dei Kist.
Sopra un orologio antico ci sono incisi sopra tre versi in arabo: non piangeremo, non ci spezzeremo, e poi per ultimo, non dimenticheremo.
Ma la gente qua risolve i conflitti andando dall’Imam della moschea, si presta soldi senza possibilità di riscatto e mi domando se, proprio vivendo senza via di fuga, non sia invece utile e congenito essere capaci dell’oblio, avere in sé stessi quest’allele dominante per la sopravvivenza della specie.
Come potrebbe altrimenti, credere alla pace, chi è da sempre martoriato dagli eventi?
Due anni fa i Kist hanno perfino preso il governo a sassate.
Vecchiette, bambini e uomini giganteschi (perché i Kist hanno anche un discreto culto per la massa muscolare), si sono messi a protestare contro la costruzione di una nuova centrale idroelettrica cinese. Da Tbilisi sono state mandate forze speciali e quelli hanno approfittato dei doni del fiume per fare un po’ di baccano.
Eppure, nonostante questa relazione con la Georgia sia così sanguinosa, loro continuano a dire: «I am Georgian and I am Kist».
In ogni parte del paese, al confine con l’Armenia, con la Russia, l’Azerbaigian, al confine con l’Ossezia occupata, «they are Georgian» e allo stesso tempo «they are Duchobory, Tush, Azeri, Osseti».
Ascoltano le notizie alla radio, le guardano al cellulare, e più spesso arriva qualcuno a raccontargliele con un po’ di ritardo.
Per usare i versi di Terenti Graneli «Mi sono talmente abituato alla morte | Che mi stupisco di essere ancora vivo».
Ecco come si sveglia un georgiano al confine.
Ma se si sveglia georgiano, allora è contento. Vuol dire che è ancora sulla strada dell’Europa, della democrazia, della libertà.
Perduti tra le montagne, questi uomini devono aver capito che non ci si salva da soli, che anzi da soli si è facilmente inghiottiti.
Chi sarà il prossimo? Pensano.
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