Con i suoi romanzi ha vinto il premio Campiello, L’ultimo arrivato – Sellerio, 2014 –, e il premio Bagutta, Resto qui – Einaudi, 2018 –, con cui è stato finalista al premio Strega, ed è stato tradotto in oltre trenta lingue. Con la sua scrittura, precisa e viva sulla pagina, è in grado di tratteggiare personaggi che si imprimono nell’immaginario dei lettori, raccontando storie scorticanti, che non lasciano indifferenti. Marco Balzano è tra gli scrittori più grandi della sua generazione, e nel suo ultimo romanzo, Bambino – Einaudi, 2024 –, esplora il male attraverso la voce, il corpo di chi il male lo compie.

Mattia nasce a Trieste nel 1900, un bambino irrequieto che cresce in un quasi adulto feroce. Una furia che esplode quando il fratello parte per l’America e la donna che ha sempre chiamato madre, prima di morire, gli confessa di non essere la madre biologica. Il fuoco divampa. Mattia entra nelle file dei fascisti, diventa un picchiatore violentissimo.

Balzano, da dove arriva Mattia?

Bambino è nato per tante ragioni, l’ho scritto sotto la spinta di molti interessi.

Me ne dica alcuni.

La città in cui è ambientato, il periodo storico, il desiderio di indagare il male guardandolo, per una volta, da chi il male lo compie.

Cominciamo dalla città. Trieste.

Il confine orientale italiano negli anni della dittatura fascista, poi della Grande Guerra, è stato teatro di violenze feroci. E da anni, ormai, è una pagina molto manipolata dalla politica e silenziata dalla divulgazione storica. Ecco, Trieste mi sta a cuore soprattutto per questo. Volevo scriverne, sì, ma non trovavo la chiave giusta per entrarci.

Qual era il problema?

Non riuscivo a capire come raccontare una storia ambientata in quel periodo, in quella città, senza che la Storia la schiacciasse. Non volevo che il risultato fosse un romanzo storico ortodosso: mi interessavano le questioni umane ché, in fondo, un romanzo è la storia di un uomo – o di una donna, certo.

E allora è arrivato Mattia.

E allora è arrivato Mattia. Nei miei romanzi mi sono sempre occupato, sempre scritto, di chi il male lo ha subito, mai di chi l’ha commesso. L’idea di mettere su un personaggio che la sofferenza la arreca mi pareva interessante.

Cos’è cambiato? Da un punto di vista autoriale, intendo.

Tutto, naturalmente. Devi ricalibrare ogni cosa – la sua morale e la psicologia, le sue relazioni e le reazioni.

Mattia non si muove seguendo il fascismo e i suoi principi, non ha alcuna spinta reale, né delle ideologie. Perché?

Perché non avrebbe restituito l’anonima e grandissima massa di fascisti che, all’epoca, sono stati capaci di commettere il male senza che fossero davvero sospinti dal fascismo.

A proposito di chi il male lo fa, allora. Quando ci guardiamo allo specchio con la consapevolezza d’essere i carnefici, cosa vediamo? Chi siamo?

È una domanda complessa e credo si potrebbero trovare tante risposte diverse. Se penso a Camus, al suo Lo straniero, ad esempio, mi torna in mente il modo in cui continua a rispondere quando gli viene chiesto perché abbia ammazzato quell’uomo: aveva il sole in faccia. Solo questo, null’altro. Se penso a Carrère invece mi torna in mente L’avversario e quel suo essere sospeso, come fosse, in qualche modo, fermo. Ecco, ho la sensazione che questa sospensione della coscienza sia condizione necessaria affinché questo capiti. E se la coscienza è sospesa allo specchio non vediamo che noi stessi – il nostro corpo. Quando Arendt intervistò i nazisti ricevette spesso risposte spiazzanti. Non avevano ucciso, dicevano: ciascuno di loro aveva solo premuto un pulsante, aveva solo girato una manopola, aveva solo portato delle persone lì o lì.

Mattia pensa spesso che se la madre adottiva non fosse morta, la biologica non lo avesse abbandonato, lui non si sarebbe ritrovato a fare quel che fa.

Lo pensa davvero, sì. Volevo scrivere un personaggio che fosse in balìa delle sue stesse azioni, come venisse trascinato da quel che fa, e nei pochi momenti di lucidità questo, in qualche modo, gli è chiaro. Fa ciò che fa ed è ciò che è suo malgrado.

Aldilà delle madri subisce pure l’abbandono prima del fratello, che parte e lascia Trieste, e poi del migliore amico d’infanzia. La sensazione è che, in fondo, questi eventi qualcosa dentro di lui l’abbiano fatto scattare, che se sia diventato un violento è per questo. Come dice Brecht: siede dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati.

Sì, ha senso, ma non credo che essere traumatizzati, aver traversato eventi che ci hanno segnati dolorosamente, sia una giustificazione sufficiente per quello che fa Mattia. Ci possono cadere addosso tante, tantissime cose terribili, però arriva per tutti il momento di responsabilizzarci, di capire che le nostre azioni possono nuocere a chi abbiamo accanto. In Mattia c’è anche una buona dose di opportunismo: vuole stare dalla parte del più forte, così si mette con i fascisti. È difficile definire quanto i traumi incidano su chi siamo e su ciò che facciamo – e non spetterebbe a noi farlo, tra l’altro. Però di una cosa sono certo: sta nel vivere e nella sua difficoltà, nell’essere adulti formati, riuscire a disinnescare il principio per cui avendo subito il male, poi, fai soffrire gli altri.

Mi sono parecchio interrogato sulla ricerca che fa Mattia della madre. È un tentativo di avere indietro, di rivivere, magari andando nella direzione di un futuro migliore, la propria infanzia?

È un’ossessione, e spesso le ossessioni non nascondono altro che un vuoto di senso. Ecco, è soprattutto un vuoto di senso, quello di Mattia. Non ha trovato un proprio equilibrio ed è convinto che trovandola, la madre, potrebbe sentirsi finalmente un uomo, un adulto. Se il romanzo si chiama Bambino è anche per questo: Mattia non è cresciuto. La verità, però, è che le sue sono soltanto delle scuse, ché le ossessioni spesso sono questo: un modo per procrastinare la vita: fintantoché non avrò raggiunto quell’obiettivo, non penserò ad altro, non farò altro.

Del padre che mi dice?

Tra loro c’è un affetto grandissimo e che prescinde ciò che fanno o che dicono. Restano l’uno accanto all’altro, nonostante tutto. Pure se il padre disprezza il figlio per quello che fa, pure se il figlio trascina il padre nelle azioni terribili che commette. Stare con i figli nonostante tutto è un dilemma di tanti genitori.

Avrebbe scritto di un rapporto genitoriale del genere, prima di diventare padre lei stesso?

Me lo sono chiesto, in effetti. Mi sono sempre tenuto lontano dallo scrivere di figli. Spesso gli scrittori quando diventano genitori poi ne scrivono come avessero scoperto chissacosa, ma a me non va.

Però il rapporto tra Mattia e suo padre è protagonista, in Bambino.

Evidentemente è venuto fuori in maniera istintiva.

Balzano, in conclusione: crede che ciascuno di noi abbia un’inclinazione naturale verso il bene o il male?

Non ho una risposta netta, e penso, tra l’altro, che intervistando dieci scrittori e scrittrici diversi avrebbe dieci risposte diverse. Io, ad ogni modo, sono un po’ sospettoso rispetto ai concetti di carattere, o di indole: sono troppo statici. Nel corso della vita cambiamo continuamente. Se alla nascita siamo predisposti a qualcosa non lo so, però credo molto nelle influenze esterne, nel fatto che ciò che ci succede e che facciamo ci modifichi.

Nessuno è intrinsecamente malvagio.

Socrate credeva che agiamo tutti per il bene, e che quando agiamo per il male è perché il bene non ci è mai stato mostrato, e non sappiamo cosa sia.

È il contesto, quindi, a formarci.

Assolutamente. Di questo sono convinto. Chissà, forse se Mattia fosse nato e cresciuto in un Tempo, in una famiglia diversa avrebbe avuto una vita diversa. Anche qui, però, ci tengo a specificare una cosa: dare la colpa o il merito di ciò che siamo al contesto in cui siamo nati è troppo semplicistico. Tutto quello che ci porta ad autoassoluzioni di questo tipo, a mio avviso, è un errore.

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