Oggi è il centenario dalla nascita di uno degli scrittori più apprezzati del Novecento, autore di romanzi come Marcovaldo e Se una notte d’inverno un viaggiatore. Il New Yorker l’ha definito «lo scrittore più affascinante che abbia posato la penna sulla carta nel XX secolo»
Italo Calvino è stato «il maestro della fantasia allegorica». Così l’ha ricordato il giornalista Herbert Mitgang sulle colonne del New York Times in occasione della sua morte, il 19 settembre 1985. Era nato 62 anni prima, il 15 ottobre 1923, a Santiago de Las Vegas de L’Habana. Esattamente cento anni fa da oggi.
Cuba è stato solo il primo panorama della vita di Calvino, da lì si è spostato nei primi anni di vita insieme ai genitori per trasferirsi a Sanremo, dove ha trascorso gli anni dell’infanzia. «Vivevo in un mondo agiato, sereno, avevo un’immagine del mondo variegata e ricca di sfumature contrastanti, ma non la coscienza di conflitti accaniti», aveva detto. Quella consapevolezza però è arrivata presto con lo scoppio della guerra, quando ha deciso di combattere a fianco della Resistenza nelle Alpi Marittime.
La sua vita lo porterà poi in una piccola camera in affitto in via XX settembre a Torino, la città in cui ha studiato (ma presto abbandonato) alla facoltà di agraria e poi (con più successo) a quella di lettere. Proprio alla facoltà di lettere conoscerà quella che sarà una presenza costante nella sua vita, Cesare Pavese, il primo lettore delle sue opere.
Il New York Times racconta che appena Calvino finiva un racconto correva a farlo leggere a Pavese e Natalia Ginzburg, che in quegli anni stavano cercando di organizzare la nuova casa editrice di Giulio Einaudi. Ma Ginzburg e Pavese erano così stanchi di dover interrompere continuamente il lavoro che Pavese suggerì a Calvino di provare a scrivere un romanzo, nella speranza di impegnarlo più a lungo. Il suo primo romanzo fu poi pubblicato nel 1947 proprio da Einaudi, anche se nel corso della vita scriverà anche molti racconti, tra i più noti ci sono Le Cosmicomiche e Fiabe italiane.
Il doppio, la modernità e la metaletteratura
In Italia, è molto conosciuto per la storia di Cosimo Piovasco di Rondò, un giovane nobile che dopo un litigio familiare decide di salire su un albero e non scendere mai più. Da quel momento gli alberi diventano la sua nuova quotidianità, un luogo da cui proverà tutte le emozioni umane più semplici: si innamorerà di Violante, sarà geloso, farà amicizia, si sentirà triste. E infine sempre da quei rami si aggrapperà a una mongolfiera e sparirà per sempre.
Questo libro, Il barone rampante, fa parte della trilogia I nostri antenati scritta tra il 1952 e il 1959, insieme al Visconte dimezzato e Il cavaliere inesistente. Sono tre romanzi in cui ha un ruolo centrale l’elemento del doppio, della divisione, dell’opposto. Ma presto l’autore si allontanerà da questi sdoppiamenti per arrivare, con Il castello dei destini incrociati, Le città invisibili, La speculazione edilizia e La nuvola di smog, allo spaesamento e ai problemi della modernità.
Le sue opere sono anche spesso fonte di ragionamento sulla letteratura stessa, come in Se una notte d’inverno un viaggiatore, che lo stesso Calvino aveva definito «d’infiniti universi contemporanei in cui tutte le possibilità vengono realizzate in tutte le combinazioni possibili».
L’impegno politico
Due momenti fondamentali nella sua formazione personale e politica sono stati l’esperienza della Resistenza e l’adesione al Partito comunista italiano. Dal confronto con la guerra all’età di 24 anni è nato Il sentiero dei nidi di ragno, il racconto dell’esperienza partigiana visto con gli occhi di un bambino, Pin. «A me, questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo e solenne per le mie forze. E allora, proprio per non lasciarmi mettere in soggezione, decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi d’un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo», aveva scritto.
Nel 1945 aderì al Partito comunista per poi abbandonarlo nel 1957. «Sembrava avere il programma più realistico per opporsi alla rinascita del fascismo e per riabilitare l’Italia», aveva detto in riferimento al Pci prima di aggiungere però di essere diventato «apolitico».
Cosa ci ha lasciato
Italo Calvino è una presenza a cui prima o poi quasi tutti gli studenti della scuola italiana si avvicinano. Da Marcovaldo, classica lettura proposta dalle maestre della scuola primaria di primo grado, al Barone rampante, in quella di secondo grado, fino a Lezioni americane qualche anno più in là.
Leggere tutti gli scritti di Calvino non è un’impresa facile perché in 61 anni di vita ha scritto oltre 20 libri, molte recensioni, più di 300 articoli per l’Unità, 140 per Repubblica e 70 per il Corriere.
Non c’è dubbio che sia stato uno dei protagonisti del secondo dopoguerra, voce dell’esperienza del conflitto mondiale, ma anche autore di storie apparentemente leggere, nonché appassionato di teatro, cinema, arte e musica.
Calvino «è stato, parola per parola, lo scrittore più affascinante che abbia posato la penna sulla carta nel XX secolo». Così lo ha definito la critica letteraria Merve Emre sul New Yorker in un articolo di febbraio.
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