Ci sono scrittori che trovano subito se stessi, la loro voce, la loro vena, un tempo si sarebbe detto la loro poetica. Di questa specie di scrittori Italo Calvino – di cui quest’anno ricorrono i cento anni dalla nascita – è uno dei rappresentanti più fulgidi. Il suo libro d’esordio datato 1947 s’intitola Il sentiero dei nidi di ragno e – lontanissimo dal romanzo neorealista – racconta le vicende partigiane dal peculiare punto di vista di un bambino, Pin (nome che richiama subito alla mente il satiresco dio Pan della classicità), mettendo in scena un Pinocchio della resistenza totalmente avulso dal contesto letterario italiano post bellico. Si può parlare di un impasto di fantastico e fiabesco senza predecessori (e senza eredi) che, appunto, è apprezzabile solo in Calvino.

Buona la prima

D’altre parte nel 1964 fu proprio lui a parlare della sua sostanziale lontananza dal contesto storico del Dopoguerra nella celebre prefazione alla riedizione einaudiana di quel romanzo d’esordio – quasi cospargendosi il capo di cenere, in verità sancendo definitivamente la sua statura di grande scrittore – dichiarando di non aver saputo rappresentare degnamente l’esperienza della resistenza in Italia, e che la sua scrittura ne ha cancellato il ricordo. Una cosa, a pensarci bene, eccezionale. Calvino aveva appena inventato il romanzo dell’oblio e della smemoratezza, in barba alla retorica incentrata sull’importanza del ricordo e della memoria. Negli anni Sessanta aveva appena terminato il trittico di romanzi che erano solo la naturale prosecuzione de Il sentiero dei nidi di ragno, quel tris d’assi riunito infine sotto il titolo di Trilogia degli antenati (Il visconte dimezzato è del 1952, Il barone rampante del 1957, Il cavaliere inesistente del 1959), dove Calvino raggiunge il suo apice, come si è notato senza nessuno sforzo, ignorando il contesto e mettendo a fuoco solo il testo (il proprio), nonostante il suo lavoro da colletto bianco dell’apparato culturale della Giulio Einaudi (e quindi, in quegli anni, della cultura tout court) lo stia cominciando a costringerlo e opprimerlo.

Gli si chiedono posizioni politiche nette a cui tende a sfuggire, dopo la rivoluzione ungherese del 1957 i suoi rapporti col Partito comunista si raffreddano. Per qualche tempo è attratto dalle sirene delle neoavanguardie che sono molto critiche con il neorealismo, ma ben presto si rende conto che le mire artistiche del gruppo 63 mirano a rendere illeggibili le opere, a contrastare il mercato con una sorta d’impettito cerebralismo criptico. Fuoriuscito anche da quella cordata, le sue nuove uscite vengono accolte dal silenzio. Ignorate sia La giornata di uno scrutatore che le Cosmicomiche, quando non bollate come tentativi «decisamente mediocri».

Parigi o cara!

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Preso atto del suo isolamento, decide di cedere alla tentazione di Parigi che, oltre a tutto il resto, è anche la città dove ha conosciuto sua moglie Chichita. E poi, come ama ripetere, «Parigi è l’unica città in cui non viene mai da chiedersi perché si sta lì e non altrove». Nel volume appena uscito di Fabio Gambaro Lo scoiattolo sulla Senna (Feltrinelli) si può leggere: «A Roma tutti si conoscono. Il Gruppo 63 ha alimentato tensioni e un dinamismo fecondo, io tuttavia sono autonomo, forse solo. Prima c’era Vittorini, ma ormai è morto. Adesso, occorre farsi sentire dal resto del mondo. In Francia dovrebbero sentirmi più vicino». Dunque nel 1967 si traferisce in una stradina di villette a schiera sul bordo sud della Ville Lumiere, non lontana dalla Porte D’Orleans, otto stazioni della metropolitana per scendere a Saint-Germain-des-Prés a comprare i quotidiani italiani.

Oppresso dal provincialismo italiano, Calvino a Parigi chiederebbe una cosa sola: uno spirito realmente libero e anticonformista. In quel periodo, immediatamente a ridosso del maggio francese, è la parola “nuovo” a risuonare: nouveau roman, nouveau théatre, nouvelle critique, nouvelle histoire, nouvelle vague. Ma che direzione far prendere alla propria scrittura, in mezzo all’esistenzialismo di Sartre e lo strutturalismo di Lévi-Strauss, la psicanalisi di Lacan e la semiologia di Roland Barthes? Calvino ne è quasi sopraffatto, e Parigi più che orientarlo sembra per la prima volta fargli dimenticare chi è: uno scrittore che non ha bisogno di nessun contesto per capire cosa e come scrivere.

L’attrazione dello sbaglio

Questa confusione – prima di tutto su di sé, sulle sue ragioni profonde, sul suo timbro – sembra attrarre Italo Calvino in modo ineluttabile. Può succedere così agli scrittori troppo sicuri, precoci e cristallini nel loro disvelamento artistico. Complicarsi la vita diventa un modo per aggirare la noia, uscire dalla propria impeccabile strada già tracciata nel fantastico e nella fiaba. Lo sbaglio diventa una forma di sopravvivenza al proprio talento, e allora ecco i titoli più intellettualistici e algidi, Le città invisibili (1972), Il castello dei destini incrociati (1973), Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), dove la narrazione pura viene soverchiata da un prurito metanarrativo, un positivismo combinatorio, uno sperimentalismo anti-romanzesco.

Questo corpus di opere prende spunto dal contatto e talvolta l’amicizia con alcuni dei nomi di spicco dell’OuLiPo (acronimo che sta per Ouvroir de Littérature Potentielle), neoavanguardia francese soltanto un poco più ludica e allegra di quella italiana: Raymond Queneau, Alain Robbe-Grillet, Georges Perec. Bisogna immaginarlo, Italo Calvino, eremita a Pagini (lui stesso diede alle stampe un libro biografico dandogli questo titolo), che si aggira nel Quartiere Latino tentando di sabotarsi, tra un bicchiere di Bordeaux e il fumo delle Gauloises.

Gli intellettuali francesi gridavano «Siate realisti, chiedete l’impossibile!» mentre a Calvino, tutto sommato, si addiceva di più il contrario: «Siate fantastici, chiedete il possibile». Tuttavia resterà a Parigi in pianta stabile fino al 1980, e a intermittenza fino alla morte in una seconda casa, stavolta nel pieno centro culturale della vita parigina, sulla rive gauche, a due passi dal Café de Flore. La sua attrazione non avrà mai fine, e pare che il ritorno improvviso a Roma sia dettato più da ragioni economiche che non da stanchezza. Nel 1978 annota: «Noi qui non so quanto ancora ce la faremo a stare a Parigi, economicamente dico. Qui tiriamo avanti perché Chichita ha del lavoro, se no io con le lire che si dimezzano cambiate in franchi non potrei mantenere la famiglia, anche se non usciamo mai, non andiamo mai al ristorante».

L’avventura di due sposi

Resta la questione della voce, trovata subito, poi perduta per rendersi la vita più difficile (e interessante?). Ci sono degli esiti in cui, forse, Calvino trova una sintesi tra il fantastico e il realistico, tra il narratore naturale e l’intellettuale anti-romanzesco. Si tratta di un libro di racconto del 1970, intitolato Gli amori difficili. Qui c’è una sperimentazione calda di un Calvino che fa l’adulto senza smettere di stupefarsi. Tra questi racconti, parlare de L’avventura di due sposi è la maniera migliore di celebrarlo. Il racconto è fatto con niente, descrive una situazione che si ripete sempre uguale, la giornata di una coppia di operai, Elide e Arturo, che hanno turni diversi e sono costretti a vedersi solo nei ritagli di tempo, quando la fabbrica glielo concede. E la loro avventura, che a prima vista sembra essere definita così per scherzo, sta invece proprio in quello sfasamento, come se la misteriosa essenza dei rapporti amorosi risiedesse nell’impossibilità.

In genere l’impossibilità è prerogativa dei grandi amori tragici, invece Calvino sembra suggerirci che per parlare del vero amore non c’è bisogno di scomodare Tristano e Isotta, e che anche una storia piccola, coniugale, può e forse deve poggiarsi sul vuoto, sull’assenza, sulla mancanza. Il racconto non a caso è imperniato sugli addii – addii minuscoli, temporanei, ma non per questo meno traumatici o struggenti – che Elide e Arturo sperimentano giorno dopo giorno, facendo lui il turno di notte e lei quello di giorno. Così quando lui rincasa all’alba a lei sta per suonare la sveglia, e l’incontro diventa subito un abbandono; allo stesso modo il ritorno di lei offre il tempo di una cena veloce, tutta consumata ad aspettare il momento in cui lui dovrà mettersi in spalla la bicicletta e andare via. Calvino dice di loro, certo, ma anche di noi.

Tutti noi in fondo siamo simili ad Arturo, che solo quando fa buio e sta per uscire si rende conto di «com’era morbida e tiepida la sua sposa»; o a Elide, che non appena rimane sola si mette a letto e cerca con un piede un accenno del tepore del marito «e ne provava una gran tenerezza». Tutti noi siamo straziati da quel che l’amore ci fa provare di più, il senso netto della mancanza.

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