Da Interstellar a The Road: i disastri al cinema andavano bene finché il cambiamento climatico apparteneva al futuro. Di guardare immense sciagure sullo schermo ormai non abbiamo più voglia. E magari porta pure male
Da principio a noi Millennial (ma necessariamente anche ai nostri genitori Boomer e fratelli più grandi Y) il cambiamento climatico è stato raccontato dai film distopici che popolavano gli schermi negli anni Zero e Dieci del nuovo millennio.
Del resto avevamo tutti aspettato il 2000 attendendo con sportivo terrore il famoso Millennium Bug e forse guardavamo alla nuova era con una certa diffidenza. Immaginavamo già l’estinzione della stirpe umana dovuta a qualche grande disastro ambientale, e il cinema rifletteva e sublimava i nostri timori mostrandoceli e insieme allontanandoli.
Che belle quelle catastrofi
Il 2001 è iniziato con Spielberg che riprendeva in mano l’ultimo progetto di Kubrick: A.I. - Intelligenza artificiale si svolgeva in un 2125 in cui l’innalzamento dei mari dovuto all’effetto serra aveva da tempo sommerso città costiere come New York, gli umani dipendevano dai robot, e solo una glaciazione e l’estinzione della specie avrebbero riportato un po’ di serenità sul pianeta (e ai robot).
In The Day after Tomorrow (2004) si aspettava un immenso ciclone che avrebbe portato a una nuova era glaciale. Nel 2006 abbiamo visto tutti Children of Men di Alfonso Cuarón, ambientato nell’allora lontanissimo 2027 (dopodomani): un mondo grigio, privo di vegetazione e in preda a guerre civili, in cui da 18 anni gli umani non riuscivano più ad avere figli. Nel 2009 The Road diretto da John Hillcoat e tratto dal romanzo di Cormac McCarthy ci proponeva una terra reduce da una misteriosa catastrofe, e ora fredda e desertica.
In Interstellar di Nolan (2014) la nostra sopravvivenza era minacciata da una terribile siccità e da eventi meteorologici estremi: l’unica soluzione era cercare salvezza in qualche pianeta lontano.
La svolta
In molte di queste storie, la catastrofe era già avvenuta. Nelle altre bussava alla porta, ormai inevitabile. Spesso era rappresentata da un unico evento naturale. Sempre era ambientata in un futuro relativamente lontano: ci minacciava, ma non ci apparteneva.
Ecco, questi film ci piacevano tantissimo. Sono stati ricoperti di premi e di incassi. E ora non ne possiamo più.
Andavano bene finché la crisi climatica apparteneva al futuro, adesso basta.
Non per niente Siccità di Virzì è stato un clamoroso flop al botteghino. In quei film gli umani non potevano fare niente per evitare gli effetti della crisi, era una calamità, una sciagura.
C’era e basta: si poteva solo cercare di spostarsi per schivarla, o sopravvivere giorno per giorno col poco che restava. Ognuno cercava di cavarsela, quasi mai c’era sul piatto una nuova proposta di mondo, un “dopo” collettivo.
Perché ci piaceva così tanto osservare il disastro seduti sulla poltrona del cinema?
Forse avevamo l’impressione di un baratro possibile, ma abbastanza lontano ed estremo da non riguardarci.
A ripensarci oggi, che riconosciamo la crisi climatica come attuale e concreta, quei film mettono quasi a disagio, come portassero male. Forse è proprio per una sorta di scaramanzia che non li guardiamo più.
Meglio storie ambientate nel presente, in cui la crisi climatica si presenta per come è: enormemente diffusa e diluita nel tempo e nello spazio, fatta di un’immensa pluralità di manifestazioni spesso anche in apparente contrasto fra loro (lunghe siccità e grandi alluvioni, ondate di calore e brevi ondate di gelo). E con l’impressione di essere protagonisti, di poterci interagire.
Nel 2023 è uscita una serie televisiva che si intitola Extrapolations. Estrapola, appunto, otto storie in otto puntate ambientate in contesti e luoghi del mondo diversi, spesso interconnessi, in un lasso di tempo che va dal 2037 al 2070.
La crisi climatica si manifesta come si manifesta nella realtà: in moltissimi modi, che cambiano a seconda dei tempi e dei luoghi, con effetti diversi sulle diverse classi sociali e zone del pianeta.
Cosa succede ora nei film
Ci sono malattie nuove dovute alla concentrazione di plastica nel sangue; c’è Miami mangiata dall’oceano; in India e in Pakistan i raggi solari sono mortali e si può stare all’aperto solo di notte; ovunque l’aria si fa sempre più inquinata e irrespirabile, fino a dover usare delle bombole per uscire di casa, e non tutti si possono permettere le bombole più performanti: molto meglio averne di costose.
Ogni puntata comincia con la conta dei morti, dei migranti climatici, della temperatura: dati sempre in aumento.
Ma in tutte le puntate resta una parvenza di vita quotidiana, non esistono grandi cesure, non è il meteorite di Don’t Look Up che distrugge tutto. E soprattutto, in tutte le puntate ci sono scelte da fare, persone che si battono affinché se ne facciano di giuste.
Non è mai «finita», non c’è mai un «dopo la catastrofe», perché la catastrofe non è puntuale, nessun grado in più è quello definitivo. C’è sempre da continuare a lottare per tirare il freno a mano e provare a invertire la marcia.
Lo scorso febbraio è arrivata in Italia The Collapse, una serie francese del 2019 (L’effondrement): lì la crisi climatica in corso sta facendo saltare tutto.
Non c’è più elettricità, non c’è più benzina, il denaro non vale più nulla, tutti vogliono provviste di cibo e beni di prima necessità, una centrale nucleare scoppia perché manca l’acqua per raffreddarla, qualche ricco cerca di scappare su un’isola, dei giovani svaligiano un supermercato per ritirarsi in campagna, le città sono nel caos. Ma siamo nel presente, siamo noi.
Tutto intorno è un delirio ma non un deserto. Non è tutto perduto. Anzi, forse forse il sistema capitalista sta scoppiando e quindi magari poi si potrà anche ricominciare, costruire qualcosa di meglio.
A un giovane rimasto fino all’ultimo a occuparsi di persone anziane in una casa di riposo una vecchia donna dice: «Sai, ho avuto una vita lunga e bella. È la fine di un mondo ed è giusto che io me ne vada con lui». È la fine di un mondo, non del mondo.
Sono due esempi davvero interessanti, purtroppo trasmessi una da AppleTv (Extrapolations) e l’altra da MyMovies (The Collapse): sono sicura che se fossero su Netflix avrebbero avuto tutt’altra fortuna.
Soprattutto Extrapolations: è diretta da Scott. Z. Burns, ha un cast composto da attori come Meryl Streep, Edward Norton, Marions Cotillard, David Schwimmer, Diane Lane, ci sono scene indimenticabili, come quella in cui Rebecca (Sienna Miller) spiega a una balena cosa sia una menzogna, il «dire qualcosa che non c’è. La nostra specie reagisce così alle difficoltà, mente».
Il bisogno di un dopo
E poi c’è Dune. Che, oltre a essere interpretato da due dei più begli attori che gli ultimi sgoccioli della generazione millennial ci abbia regalato, Thimotée Chalamet con Zendaya, è un’eccezione di per sé. Intanto è fantascienza, ma non distopia. È ambientato in un mondo altro, per quanto colpito da calore e desertificazione: non è un futuro possibile, ma un altrove.
Sono altri pianeti, non la Terra, e anche nel pianeta deserto c’è del bello, ci sono spezie preziosissime, un’umanità pacifica ma in lotta: il problema, più che il caldo, è il colonialismo che questo pianeta subisce da anni. Ma soprattutto Dune propone un’alternativa, un possibile dopo. Nei film dei primi anni Duemila quasi mai c’era una proposta di mondo alternativo.
Oggi abbiamo bisogno di questo, che si parli di futuro o di presente, che si immagini una ricostruzione o si osservi cosa già sta cambiando oggi: i germi di visioni e priorità altre che già cominciano a prendere forma.
Fra i difetti di Siccità, c’era il finale: una pioggia purificatrice faceva tornare tutto alla normalità. Ma non è questo che accade nella realtà della crisi climatica. E non è nemmeno quello di cui abbiamo bisogno: che non cambi nulla è comunque una distopia.
Un tema ricorrente dei film di quegli anni era l’infertilità, ripreso anche dalla serie di Bruce Miller del 2017: Il racconto dell’ancella, tratta dall’omonimo romanzo di Margaret Atwood (1985).
A ripensarci oggi è interessante perché il presente ci dice che sì, nel Nord globale c’è un problema di invecchiamento della popolazione, ma il Sud ne fa eccome, di figli.
E a ben vedere, i protagonisti di tutti quei film distopici appartenevano quasi sempre al Nord globale. Si ragionava per regioni della Terra, cosa succedesse fuori dagli Stati Uniti non era nemmeno menzionato. Oggi storie così parziali non si raccontano più, o sempre meno. Anche di questo non abbiamo più bisogno.
Nelle narrazioni del presente l’Antropocene entra di soppiatto, non necessariamente, non più, come tema centrale e oggetto, ma nemmeno come sfondo. Piuttosto come dato di fatto, atmosfera, realtà quotidiana.
La crisi climatica ha smesso di appartenere alla fantascienza perché ha smesso di appartenere al futuro. Non è più un oggetto conchiuso, esterno e visibile come il meteorite di Don’t Look Up o il ciclone di The Day after Tomorrow. Al contrario, direbbe Timothy Morton, è un iper oggetto diffuso e viscoso che sta dappertutto.
Il cinema e la letteratura possono proporre pensieri e immaginari alternativi o riflettere profondamente e seriamente sulla realtà. Di guardare immense catastrofi al cinema non abbiamo più voglia, e magari porta pure male.
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