La cover del mensile Finzioni di ottobre è firmata da Luca Tieri, illustratore fumettista napoletano trapiantato a Tokyo. Ha iniziato la sua carriera collaborando con band e riviste dell’underground italiano e internazionale, con importanti esposizioni in Giappone come la personale Mondo Sogno nel 2010 e Turbogirl nel 2019, dove ha presentato lavori che anticipavano Vecta (la sua prima graphic novel del 2021, Coconino Press), ambientata in una Tokyo del 2055.

La storia segue le avventure di Telemaco, un hacker, e Irina, una pilota di turbomoto, coinvolti in complotti e intrighi legati a un'intelligenza artificiale rivoluzionaria. Un fumetto che rappresenta una sintesi originale di influenze giapponesi e occidentali, riflettendo la passione di Tieri per il cyberpunk. Nonostante le sue radici nel manga tradizionale, Vecta emerge come un’opera con una voce distintiva, unendo velocità, dinamismo e una critica sociale alla visione futuristica.

La storia esplora temi di identità, tecnologia e libertà, con una narrazione che, pur ispirata da grandi nomi del manga, mantiene un’impronta personale e innovativa.

Il suo stile riesce a mescolare influenze visive e culturali dall’Italia e dal Giappone in una sintesi unica e originale, evitando la semplice imitazione. Questo equilibrio visivo è sempre stato una sua caratteristica distintiva, o è qualcosa che ha sviluppato e raffinato nel corso degli anni?

In quello che faccio c’è dentro un po’ di tutto. Da bambino ero scarso col pallone così finivo sempre a disegnare storie. Sulle pagine di Topolino mi divertiva trovare le differenze dei vari stili, Cavazzano e Scala allietavano i miei pomeriggi. Crescendo sono passato a Toppi e Mattioli sul Giornalino. Alle superiori rimasi folgorato dal boom manga degli anni ‘90 con le cose di Shirow, Otomo, Sonoda. Tra un manga e l’altro in fumetteria ho scoperto Love and Rockets dei fratelli Hernandez e pure che gli american comics non sono fatti solo di supereroi in calzamaglia. Jaime Hernandez ha un tratto che mi ricorda quelli di Dan DeCarlo e Milton Caniff ma più moderno, in più è legato alle sottoculture e in quegli anni iniziavo a disegnare per band punk e copertine per fanzine, così lo sentivo molto vicino. Con Jaime e le opere di Jordi Bernet ho compreso che il fumetto è un’opera di sintesi e di equilibri ben bilanciati. In seguito in Giappone mostre di tavole originali di maestri manga (Satoshi Kon, Katsuhiro Otomo, Eguchi Hisashi e altri) mi hanno fatto capire quanto ci sia una connessione tra occidente e oriente. Stilisticamente è come se negli anni ‘80 l’onda del Giapponismo ottocentesco sia tornata indietro con tutta la new wave di artisti occidentali (Moebius, Syd Mead, Crepax e molti altri) e si sia fusa con la tecnica di disegno e racconto manga. Tecnicamente siamo tutti la somma di quello che ci piace, la sensibilità verso il vissuto di tutti i giorni ci dà la possibilità di essere personali in quello che disegniamo e raccontiamo. Dopo un periodo di crisi, qualche anno fa a una mostra di Katsushika Hokusai ho avvertito che dovevo mettermi a lavoro sulla linea. Un’illuminazione. Negli ultimi anni mi diverto ad andare per sottrazione in fase di sketch anche se l’ideale sarebbe usare un numero giusto di linee e forme già dall’inizio.

Illustrazione realizzata per i grandi magazzini MORE’S a Yokohama

Dall’Italia (nello specifico Napoli) a Tokyo, ha affrontato un cambiamento radicale sia nella vita personale sia in quella lavorativa. Com’è andata?

Il primo viaggio in Giappone è stato agli inizi dei 2000. Ho conosciuto dei ragazzi che avevano un magazine della scena musicale underground locale e ho iniziato a collaborare con loro. Nel 2010 a Koenji, Tokyo, ho tenuto la mia prima personale e in quelle settimane ho avuto modo di muovermi tra i sobborghi più a misura d’uomo della popolosa capitale. Ogni angolo era pieno di stimoli, così dopo svariati ritorni in Giappone ho pensato che fosse arrivato il momento di imparare la lingua sul posto. All’inizio l’apprendimento è stato rigido poi man mano sempre più naturale. Soprattutto nei settori creativi è importante essere sulla stessa linea d’onda quando si è con gli art director o direttamente col cliente. Venire qui è stato un investimento di tempo e di energie, l’importante è portare avanti le proprie cose, non demordere.

Gaijin” è l'etichetta dedicata alla pubblicazione di manga creati da autori non giapponesi. Il termine "gaijin", in giapponese, significa "straniero", richiamando proprio questa idea di appartenenza a un contesto esterno. Si sente parte di questo movimento? Ha un modo per definire il suo lavoro e approccio visivo?

Mi ritengo abbastanza trasversale, lavoro principalmente come illustratore anche se ho un approccio con chine e colori flat che ha molti richiami al fumetto. Ritornando alla lingua, penso che studiarla sia importante per la comprensione del paese e così anche per andare oltre quel “gaijin” riferito al mio operato. Non mi sento di appartenere a movimenti, mi viene da sorridere vedendo in giro le etichette del momento.

Durante la creazione di “Vecta” ha esplorato anche il concetto di identità, soprattutto femminile, rompendo stereotipi attraverso i personaggi. Cosa l’ha spinta a sviluppare queste figure femminili forti e complesse? Soprattutto collegandosi al Giappone in cui la figura femminile ha un peso ancora molto diverso rispetto a quella maschile.

Ho sempre avuto intorno a me figure femminili dal carattere forte. Nella scena underground musicale che frequentavo da adolescente mi sembrava che le ragazze avessero una marcia in più. Succede anche qui ma fuori dalle live house ci sono ancora aziende con lavoratrici sottopagate. Qualche anno fa all’università di medicina di Tokyo c’è stato anche lo scandalo dei risultati di test modificati per limitare l’ingresso alle studentesse. C’è ancora molto da fare in Giappone ma qualcosa, lentamente, cambia. Quando lavoro ai miei personaggi cerco sempre di lavorare sul loro vissuto. Odio gli stereotipi, soprattutto dei personaggi femminili. Cerco di disegnarli come se avessero consapevolezza delle loro azioni.

Ha avuto l’opportunità, diverse volte, di esporre i suoi lavori in Giappone. Come pensa che il pubblico giapponese percepisca il suo stile, che mescola influenze locali e occidentali?

Qui in Giappone riconoscono una certa sensibilità familiare nelle mie cose con le loro ma anche un approccio del colore diverso. Nel tempo, penso anche in maniera inconsapevole, sono riuscito a ritagliarmi uno spazio più autoriale nel segno e nei contenuti e forse anche per questo mi viene data una certa libertà di espressione quando lavoro.

"Copertina album “iine!” dei Sunny Day Service. ROSE RECORDS”

In Vecta, la Tokyo del 2055 è un luogo affascinante, futuristico e oscuro allo stesso tempo. Cosa l’ha ispirata nella creazione di questa versione ipertecnologica della città in cui tuttora vive?

A Tokyo mi sposto spesso in bici, così quello che mi è attorno è diventato teatro di Vecta in maniera molto naturale. Le stradine tra i piccoli agglomerati, aree residenziali con vecchie costruzioni dell’epoca Shōwa che sfociano in arterie principali con edifici moderni restituiscono questa convivenza tra passato e moderno in maniera dinamica. Persone che incontro in strada, amici e posti che frequento abitualmente hanno fatto il resto.

Il personaggio di Vecta, un'interfaccia virtuale con sembianze umane, solleva questioni complesse sull'identità e l’interazione uomo-macchina. Quanto è importante per la sua ricerca artistica esplorare il confine tra il virtuale e il reale, e il rapporto da gli esseri umani e le macchine?

La macchina, personaggio senziente nella fantascienza, ci pone delle domande su cosa è umano e cosa non lo è. La componente etica nel processo di sviluppo tecnologico ci colloca ad essere umani coscienziosi che dovrebbero imparare dagli errori commessi.

Ha qualche progetto interessante che può anticiparci?

Tra una cosa e l’altra sto mettendo insieme un mio artbook con lavori e originali degli ultimi anni. Inoltre sarebbe bello portare “Tokyo Arte Pop”, la mostra che ho fatto con Eguchi, anche in Italia

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