In una Gotham City rurale fatta di casali in degrado un poliziotto insegue un serial killer grafomane. Nella miniserie Sky troviamo un fascino dark e lo sguardo di chi combatte il male nel mondo e in sé stesso
Dostoevskij, la serie scritta e diretta per Sky Studios dai fratelli D’Innocenzo, Fabio e Damiano, è la vera stagione 2 di True Detective. Mi spiego per chi è esente dal culto del primo capitolo del format Hbo, che compie dieci anni e ha consegnato alla leggenda i detective Rust Cole (Matthew McConaughey) e Marty Hart (Woody Harrelson), con Cary Joji Fukunaga regista.
La serie antologica di Nic Pizzolatto ha avuto altre tre stagioni, ma molto al di sotto di quella potenza di fuoco, ipnotica quanto evocativa. Non regge il confronto nemmeno la quarta stagione, integralmente al femminile, True Detective: Night Country, che pure di pregi ne ha molti: non solo il tris Jodie Foster e Kali Reis (protagoniste) e Issa Lòpez (sceneggiatura e regia) ma anche l’anima ambientalista e no global dell’intreccio.
Dostoevskij non è un derivato, è un film lungo (cos’ altro è una miniserie?) autonomo e originale, ma del True Detective pilota ha lo stesso fascino dark, lo stesso grado di esplorazione nei démoni di chi guarda il male diciamo dalla parte giusta della barricata, ma lo combatte anche dentro se’ stesso. Non sono certissima che le nostre stelle gemelle dell’autorialità dark gradiscano questa parentela forzata: non obbediscono – parole loro- a modelli preconfezionati.
È solo un modo per dire che i fratelli D’Innocenzo, classe 1988, hanno ben poco da invidiare alla serialità americana “alta”: costruiscono un mondo loro, geografico e stilistico, un linguaggio estetico, umano e morale. Loro in realtà usano un’altra parola per definire quest’opera: romanzo.
La loro serie, che con lo scrittore russo del titolo ha a che vedere solo per le predilezioni di lettura dei due, uscirà in sala, in due parti, prima che su piattaforma. Accadde anche per Esterno notte di Marco Bellocchio. Dostoevskij è stato presentato in anteprima alla Berlinale, che da sei anni (dal loro esordio con La terra dell’abbastanza) accoglie, valorizza e premia il lavoro dei gemelli.
Il killer e il suo “doppio”
So da fonte diretta (i gemelli, cioè) che la loro serie è stata girata, come tutto il loro cinema, rigorosamente entro i confini laziali, nel caso specifico con varie location lungo il fiume Mignone, estrema area sud del Viterbese.
Ma Dostoevskij comunica il senso di sterminati orizzonti del cinema americano che ci ha colonizzato l’inconscio, per dirla con Wim Wenders, e quel medesimo tipo di emozioni. Non è una questione geografica ma di regia.
Esiste il contrario del termine “minimalista” nel lessico cinematografico? I D’Innocenzo sono massimalisti. I luoghi per loro sono sempre il “terzo personaggio”: pensate ad America Latina, il loro terzo film.
In questo caso sono di più: la proiezione simbolica del poliziotto Vincenzo Vitello (Filippo Timi, e chi valorizza un grande attore non abbastanza sfruttato fa un immenso regalo al pubblico), «un uomo che», come dicono i D’Innocenzo, «ha perso tutto in una terra di uomini che hanno perso quasi tutto, e che ha scelto di perdere anche sé stesso, o forse no».
A tenerlo legato alla vita, controvoglia, c’è un caso da risolvere. Nella terra eliotianamente desolata in cui presta servizio (per 1.200 euro al mese) un serial killer grafomane ribattezzato Dostoevskij semina vittime descrivendo, nei suoi messaggi lasciati sul posto, la loro agonia, e riflettendo da nichilista sul caos della vita, inutile, fonte di dolore e disperazione.
Sono omicidi privi di nesso e movente. Lo squallore, i dettagli di ordinaria macelleria sono quelli che Seven ci ha reso così familiari, ma chi dopo David Fincher è riuscito a emularli? «Le lettere che Dostoevskij lascia accanto a ogni cadavere, a ogni sua impresa», dicono i gemelli, «sono un coagulato di affilata sofferenza, l’immondizia di essere vivi e l’unica giusta espiazione: diventare morti».
Una Gotham City rurale
È un universo dark di casali in degrado, una Gotham City rurale e una no man’s land di prefabbricati fatiscenti (come la stamberga in cui vive Vitello, in vendita per 20mila euro, ma la cederà a 10mila per umana solidarietà) e di stazioni di servizio dismesse: è la nostra Route 66, e non è artificio degli scenografi.
«Creare un habitat è fondamentale», per gli autori, «è un’esperienza che il pubblico vive in proprio, un senso di appartenenza». È quell’«estetica della sgradevolezza» che tenne a battesimo la prima Jane Campion di Sweetie, e la tetraggine dei gemelli – benedetta o maledetta che sia, a seconda dei gusti – è una virtù rara.
Sono periferie topografiche omesse dalle rotte turistiche, come l’umanità diseredata che le popola. Non finiranno nelle brochure delle pro loco come le locations di Montalbano, poco ma garantito.
Il poliziotto Vitello ha una tormentata vita da single, ha una figlia che lo ha rinnegato e un tarlo segreto che combatte a forza di psicofarmaci: «un impasticcato del c..», come lo qualifica il rampante collega rivale.
Oscurità e trash sono un batterio contagioso, uno status mentale e simbolico prima ancora che fisico. Le lettere del killer che ossessiona Vitello sono il suo specchio: «L’ho guarito da questa assurda malattia del viver»”, scrive di una vittima il killer, che al poliziotto somiglia fin troppo per Weltanshauung. Tra loro, è un dialogo tra affini, un epistolario a distanza, non scritto. Per questo thriller il solo aggettivo adatto è lo spagnolo sombre, oscuro. Intercettato dalla notevole fotografia di Matteo Cocco, il meteo è in sintonia: buio anche di giorno, quando compare il sole è un sole malato. L’alternativa notturna è un neon raggelante.
Sto trascurando il plot per amore dell’estetica, ma anche il plot è di tutto rispetto. Perché Vitello-Timi, vivo che si porta la morte dentro, per varie ragioni si libera dalle pastoie dell’impiego pubblico e si immerge in una caccia privata in solitaria, un face-to-face con la sua preda e la sua personale ossessione.
E la pista oscura sono gli orfanotrofi della regione, ricettacoli di dolore sedimentato. L’unico indizio viene dalle lettere del misterioso Dostoevskij, che tappezzano la sua desolata camera da letto. Parlano, certe lettere, di un “contenitore” e della “città dei bimbi sbagliati”.
Grullerie di sceneggiatura? Ne esistono, sì. È piuttosto inverosimile che l’intero archivio di un istituto stia marcendo con l’edificio che lo ospitava, e che l’archivio sia accessibile a tutti. Ma sono quisquilie.
Autori (per fortuna) imperfetti
Per nostra fortuna i D’Innocenzo sono autori imperfetti. La perfezione è noiosa e non è interessante. In particolare non hanno ancora imparato a gestire i personaggi femminili. Si muovono magistralmente in un universo maschile che è la loro comfort zone. Il solo personaggio femminile di questa storia (almeno per la parte non spoilerabile), ovvero la figlia tossica di Vitello-Timi, Ambra, è sempre un filino sopra le righe, più cliché che persona vera.
Togli le digressioni che la riguardano e Dostoevskij è da antologia, senza se e senza ma. Carlotta Gamba (che è anche la compagna di Fabio ed è stata la Beatrice di Pupi Avati) ci mette passione, ma in America Latina era molto più brava. Per parafrasare la mitica Jessica Rabbit, non dipende da lei, è che la disegnano così.
Il cinema tutto al maschile oggi sarà impopolare secondo i parametri woke ma non è per forza più brutto o meno arty. Memorie di un assassino, il noir coreano rurale di Bong Joon-ho del 2003, ignorava le donne, è comunque un capolavoro e la serie dei D’Innocenzo per molti versi me lo ricorda.
Ma se decidi di raccontare anche le donne meritano gli stessi chiaroscuri e la stessa complessità dei loro partner maschili. Per contro, si confronti il loro Filippo Timi con quello di un dignitoso serial crime nostrano come I delitti del Bar Lume (sempre su Sky) per apprezzare la siderale distanza. I ragazzi D’Innocenzo viaggiano alti, controcorrente e contro le mode. In territori ignoti, in tutti i sensi, ai nostri standard consueti.
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