Robert Guédiguian racconta la storia di un’ex operaia che lavora in tre case di anziani dopo la chiusura della fabbrica. «Il vecchio proletariato non esiste più. Racconto chi si lascia abusare dai consumi e le brave persone rimaste al mondo»
Nella più celebre delle sue raccolte di racconti, Grace Paley li chiamava Piccoli inconvenienti del vivere: erano i guai e le ingiustizie infinite patiti dalle sue casalinghe del sottoproletariato, ma erano vita ordinaria, affrontata senza drammatizzare. Alla Festa del cinema di Roma col suo ultimo film, La gazza ladra (ma rende meglio il titolo originale, La pie voleuse, la ladra pia) Robert Guédiguian trasgredisce il suo ormai quarantennale attaccamento alla classe operaia francese, alle sue lotte e al suo declino, per raccontare con tenerezza la storia di una lavoratrice che appartiene all’esercito in crescita delle nostre città sempre più popolate di anziani: una badante a ore.
Il film uscirà in Italia nel 2025 con Officine UBU. Per il suo indefettibile rigore marxista militante, Guédiguian è considerato il Ken Loach francese, anche se è di un paio di decenni più giovane. E nella trasgressione di classe, se vogliamo chiamarla così, resta ben ancorato alla sua Marsiglia e all’Estaque, il quartiere popolare e marginale che è stato il punto di osservazione sociale di quasi tutto il suo cinema.
È perfino superfluo precisare che lo supporta la sua inseparabile e prodigiosa "famiglia” di attori: sua moglie Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin e Gérard Meylan, che per tutta la vita ha fatto l’attore ma anche l’infermiere d’ospedale.
La trama
Maria (Ascaride) è un’ex operaia. Da quando la sua fabbrica ha chiuso lavora come badante-tuttofare in tre casette di anziani che assiste amorevolmente: una vecchina con un cane più acciaccato di lei, una coppia ostaggio della romantica demenza senile della moglie e un prof pensionato (Darroussin) in sedia a rotelle.
Facendo la cresta sulla spesa, ritagliando una decina di euro qua e là, Maria riesce a concedersi il lusso di un piatto di ostriche da assaporare sul terrazzino, guardando il mare e ascoltando Rubinstein che suona Liszt. Perché ha un sogno, che è il suo assillo e la sua ossessione: vedere il nipote, che è un piccolo musicista dotato, diventare un grande pianista. Sua figlia Jennifer fa la cassiera, ha sposato un camionista, mancano i soldi anche solo per l’affitto di un piano.
Hanno debiti, e la sua magra pensione il marito (Meylan) per lo più se la gioca a carte con gli amici del bar. Perciò qualche assegno del prof, Monsieur Moreau, viene dirottato, di nascosto, allo scopo. Furtarelli che non verrebbero mai alla luce senza quei “piccoli inconvenienti del vivere” di cui parlava Grace Paley.
A partire da un furto casuale in un negozio di strumenti musicali, La gazza ladra si sviluppa come un giallo, con un colpevole, investigazioni private, false piste, colpi di scena, suspense e tutti gli ingredienti classici, ma calibrati su piccole vite modeste e redditi di sussistenza. Il che lo rende inedito e assolutamente speciale.
I personaggi
I furtarelli non impediscono a Maria di essere una gran brava persona, amatissima e indispensabile per i suoi pensionati, una che accorre anche di notte, senza farsi pagare, che li difende contro le minacce di sfratto. Quello che toglie ai suoi assistiti, pensa, non li rende più poveri.
Ma c’è un’audizione del conservatorio in vista, e con trecentocinquanta euro potrebbe assicurare al nipote-prodigio un mese di preziose lezioni private. Il suo bancomat clandestino potrebbe fruttare di più. Ignora però che il figlio del prof, che è un agente immobiliare e gli fa visita solo per convincerlo a vendere casa, ha scovato nella posta del padre la strana lettera di un negozio che attesta l’affitto di un piano.
Diventa quindi il detective privato di questo polar minimalista, sospetta prima l’omaggio a una vecchia tresca che avrebbe indotto suo padre a lasciare la madre defunta, e poi – avendo ottenuto l’indirizzo a cui lo strumento è stato consegnato – gli appetiti senili di un “vecchio sporcaccione” ansioso di carne fresca.
La mamma del piccolo pianista che gli apre la porta infatti è giovane e molto carina. L’affaire deflagra con un effetto domino inarrestabile, perché la figlia ignara costringe la madre a confessare e corre dall’accusatore, Laurent, per raccontare i fatti e promettere: «Vi restituiremo tutto».
Spiega anche perché i genitori sono disperatamente al verde: si sono concessi piccoli lussi fuori portata, perfino un appartamento con una piscinetta di quattro metri per due. E tra le lacrime, imprevedibile, scatta il colpo di fulmine. È un altro ingranaggio che si mette in moto. Perché l’amore fiorisce, Laurent lascia la moglie e lei sporgerà denuncia per ripicca. Il piano è stato restituito, Maria è stata costretta dai familiari a lasciare gli assistiti che aveva sfruttato, ma viene convocata in questura per furto. È la rovina, anche se lei cerca di discolparsi: «Non avevo l’impressione di rubare, se avessi chiesto mi avrebbero aiutato».
È a questo punto che l’umanesimo caro al regista torna a prendere il sopravvento. Monsieur Moreau in sedia a rotelle affronta il traffico cittadino per negare ogni addebito: gli assegni contestati li ha dati lui, in piena coscienza, nessuna circonvenzione d’incapace. E in questura racconta un apologo di Victor Hugo, scrittore prediletto da Guédiguian e dal suo cinema. «Avete mai letto Les pauvres gents? C’è la storia di un pescatore che torna a casa e scopre che il suo vicino è morto di miseria, lasciando due orfani.
Allora dice alla moglie: “Siamo cinque, saremo in sette, il buon Dio ci farà prendere più pesci, berrò solo acqua, lavorerò di più”. Sua moglie apre una tenda, e i bambini sono già là: “Eccoli, li ho già portati a casa”». E dato che gentilezza e solidarietà per il regista fanno sempre – o dovrebbero fare – scuola, anche l’agente immobiliare si riconcilia col padre. Ora ha tante cose nuove da raccontargli, e non sono questioni di soldi. C’è un finale che non anticipo, ma che suggella il giallo con ironia.
Le parole del regista
È una variazione inattesa nella filmografia di Guédiguian. «Avevo voglia di raccontare una piccola storia giocata su un permanente filo teso – dice il regista – come se tutti i personaggi non potessero mai uscire da una tela invisibile. È questo a creare la suspense: è una storia in cui sembra non esserci via d’uscita. Per me era una sfida».
Anche la trasgressione di classe segue una logica: «Sono i poveri di oggi, la mia classe operaia non esiste più, le acciaierie e le fabbriche tessili sono state delocalizzate. E queste nuove figure di lavoratori sono complicate, facili vittime del consumismo, hanno i bisogni indotti della piccola borghesia, hanno una percezione delle cose più piccolo borghese che operaia, anche se guadagnano miserie. E nuovi poveri sono anche i pensionati, ma hanno bisogno di aiuti domestici. Qui racconto persone che si lasciano abusare dai consumi che gli propongono, mobili che non possono permettersi, una micropiscina, stupidaggini che li fanno indebitare».
L’ottimismo della volontà però, nei suoi film, vince sempre. «L’umanità continua a esistere, nonostante tutto, perché ci saranno sempre persone capaci di rappresentarla degnamente. Non mi interessa fare cinema con gente che si comporta in modo orribile: oggi vanno di moda i cattivi. Sono più interessanti le brave persone e le azioni di cui non si parla mai».
© Riproduzione riservata