Le linee guida per le scuole sulla vicenda del confine orientale sono state l’ultimo atto del ministro Bianchi prima dell’insediamento del governo Meloni. Promettevano un «percorso di riconciliazione», ma lasciano ampi spazi per le interpretazioni degli estremisti
Poche settimane dopo l’inizio dell’anno scolastico, esattamente il giorno prima dell’insediamento del nuovo governo, il ministero dell’Istruzione ha pubblicato un documento per le scuole di ogni ordine e grado denominato «Linee guida per la didattica della frontiera adriatica». Si tratta di un testo molto lungo, composto da circa 90 pagine, firmato dal ministro dimissionario Patrizio Bianchi e dal suo capo dipartimento Stefano Versari, realizzato da un’equipe di quattro storici e sottoscritto dalla maggior parte delle associazioni degli esuli.
Il fatto ha suscitato immediate polemiche, soprattutto perché sul medesimo tema, nel febbraio del 2022, gli stessi Bianchi e Versari avevano inviato una circolare che proponeva un’ambigua equiparazione tra foibe e Shoah. Si leggeva, in quel testo, che «il Giorno del Ricordo e la conoscenza di quanto accaduto possono aiutare a comprendere che, in quel caso, la “categoria” umana che si voleva piegare e culturalmente nullificare era quella italiana.
Poco tempo prima era accaduto, su scala europea, alla “categoria” degli ebrei». Era dunque comprensibile una certa preoccupazione in merito a questo nuovo documento, e il timore di un ennesimo tentativo di ingerenza della politica sul mondo della scuola. Sollecitato da più parti, sono andato dunque a studiare questo testo, cercando di valutarne la serietà scientifica, gli scopi politici e gli utilizzi concreti che potrebbe avere nella didattica.
Questioni di opportunità
Prima di tutto ci si può chiedere se fosse davvero necessario investire tante risorse e produrre un testo così lungo e articolato su un argomento marginale da un punto di vista storico e anche, conseguentemente, curriculare. Non si tratta infatti di un caso unico, ma l’imponenza e la complessità del documento evidenziano un impegno fuori dal comune e una chiara volontà di controllo della politica su un tema tanto delicato. Ciononostante va detto che le pagine introduttive redatte dal ministro Bianchi e dal capodipartimento Versari fanno ben sperare. Entrambi sottolineano la necessità di una didattica ancorata ai fatti storici, inclusiva dei diversi punti di vista e delle memorie conflittuali, che operi nella prospettiva di un’integrazione europea: «L’obiettivo è che la storia della frontiera orientale generi incontro, collaborazione, speranza», scrive ispirato il ministro Patrizio Bianchi.
L’introduzione storica sembra in linea con tali principi: si sottolinea la complessità etno-nazionale del territorio, la lunga compresenza di identità linguistiche differenti, la sovrapposizione di tre mondi culturali: slavo, latino e germanico. Inoltre si afferma che «non conduce a nulla paragonare fra loro i genocidi, le stragi e le migrazioni forzate», il che sembra proprio un riferimento alla circolare-gaffe del 10 febbraio 2022. Poco dopo si sconsiglia la visione dei film «più recenti» realizzati sul tema, che non sarebbero «adatti alla visione dei giovani, facilmente e acriticamente colpiti dagli aspetti più emozionali delle pellicole». Anche in questo caso sembra di poter leggere un riferimento velato ai film prodotti dalla Rai negli ultimi vent’anni (“Il cuore nel pozzo” e “Rosso Istria”), molto discutibili da un punto di vista storico e interpretativo, ma elogiati dalla destra e dalle associazioni che firmano il documento, i cui gruppi dirigenti provengono in gran parte da quella stessa area politica.
Fino a qui riesce difficile comprendere come tali associazioni abbiano potuto sottoscrivere questo testo. Si tratta di enti che da tempo collaborano con il governo, che ricevono ingenti finanziamenti pubblici, quantificabili in circa due milioni di euro all’anno, e che si ritengono le uniche e legittime custodi della memoria di quegli eventi. Essi promuovono un approccio comprensibilmente “di parte”, rigettano una visione storica complessa e accusano di “negazionismo” chiunque si azzardi a contestualizzare la vicenda. Eppure la contestualizzazione storica e geografica è proprio al centro della ricostruzione proposta nelle Linee Guida del Ministero. Essa peraltro sembra ispirata a un testo precedente, il vademecum realizzato nel 2019 dall’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia.
Vale la pena notare che uno degli autori del nuovo documento, il professor Raoul Pupo, considerato il principale esperto in materia, figura anche fra autori del vademecum realizzato dall’Istituto di Trieste. Tale lavoro aveva suscitato aspre critiche da parte degli amministratori regionali di Lega e FdI, col supporto di alcune associazioni che pure oggi controfirmano le linee guida di Bianchi. Si era distinta in quell’occasione l’Unione degli istriani (che era arrivata ad accusare lo stesso Pupo di “negazionismo”), il cui presidente è noto per aver contestato la visita congiunta dei presidenti italiano e sloveno, Mattarella e Pahor, a Basovizza nel luglio 2020, esaltata invece nelle Linee Guida come necessario «rispetto per le altrui memorie di sofferenza» e «condivisione del lutto».
Cosa cambia dunque in queste pagine rispetto a quelle del vademecum del 2019? Non molto, in effetti. Questo lavoro si distingue più che altro per un abilissimo esercizio di equilibrismo fra una versione dei fatti storicamente accettabile e la visione puramente vittimista voluta dalle associazioni degli esuli. Pur con un linguaggio molto neutro, espressioni pacate, giudizi mai sopra le righe e senza clamorose dimenticanze, il percorso storico proposto adotta infatti una prospettiva totalmente italiana e non prova nemmeno a «superare le angustie delle storiografie nazionaliste», come auspicato dal ministro nell’introduzione. Per essere più chiari, ecco alcuni esempi estratti dal testo della circolare.
I contenuti
Dopo la lunga introduzione sulle diverse identità presenti nell’area, il paragrafo dedicato all’età moderna porta il titolo “L’epoca veneziana”, dimenticando però che, in quella stessa epoca, gran parte del territorio (incluse le tre città più importanti: Trieste, Gorizia e Fiume) era sotto il dominio degli Asburgo, non di Venezia. Poco dopo viene ribadita la tesi (tanto cara al nazionalismo più miope) secondo cui, dopo il 1866, l’Impero asburgico avrebbe favorito gli slavi invece degli italiani. La riprova starebbe nella nomina di sindaci croati e nell’apertura di scuole in lingua croata in Dalmazia, dimenticando il fatto che a quell’epoca i croati rappresentavano nella regione la maggioranza della popolazione. Una decisione politica di semplice buon senso da parte dell’amministrazione austriaca, volta all’alfabetizzazione e al riconoscimento di una rappresentanza politica alla maggioranza della popolazione viene dunque stigmatizzata come anti-italiana.
Ma ce n’è anche per gli sloveni, la cui immigrazione a Trieste in quegli stessi anni avrebbe insidiato la pacifica convivenza in città. L’irredentismo italiano viene così rappresentato come una pura scelta difensiva, di fronte alla «azione del movimento nazionale sloveno che inceppava i tradizionali processi d’integrazione». Infine si dimenticano completamente le centinaia di migliaia di cittadini di quell’area che hanno subito la prima guerra mondiale o che hanno combattuto a favore dell’Austria, per soffermarsi sui singoli casi di irredentisti caduti per l’Italia. Che fine ha fatto dunque il «tentativo di costruzione di percorsi di riconciliazione nella prospettiva della comune cittadinanza europea» invocato dal ministro nell’introduzione, se in poche pagine sloveni, croati e austriaci vengono descritti, come sempre, quali nemici da combattere?
Avvicinandosi al periodo della violenza più estrema le cose si complicano ulteriormente. Si accenna agli esuli austriaci e slavi (decine di migliaia) costretti a lasciare i territori annessi dall’Italia più che altro per ricordare le attività anti-italiane da loro organizzate, mentre non si fa alcun riferimento ad un’analoga opera di destabilizzazione dello stato jugoslavo condotta dai dalmati italiani. Le violenze fasciste e i crimini di guerra italiani in Jugoslavia non vengono negati, ma queste ultime sono rappresentate come una pura reazione alla brutalità della guerra partigiana. Si tratta di una visione spesso proposta anche nei confronti della Resistenza italiana, che finisce per criminalizzare l’attività partigiana e giustificare le stragi nazifasciste, come viene brillantemente evidenziato in un recente volume di Chiara Colombini.
Le foibe
Dopo l’8 settembre 1943 e le prime foibe istriane, il testo si concentra giustamente sull’ulteriore inasprimento della violenza sotto l’occupazione nazista. In questa fase non vengono nemmeno nominate le formazioni partigiane italiane che operano in zona agli ordini dell’esercito di liberazione jugoslavo, offrendo dunque l’impressione di una contrapposizione puramente nazionale (jugoslavi contro italiani) e non invece ideologica (partigiani italiani e jugoslavi contro nazisti e collaborazionisti jugoslavi e italiani).
Particolarmente eloquente in questo senso è la pagina dedicata al destino di Zara in quei mesi. Sempre senza nominare le migliaia di ex soldati italiani che in Dalmazia si danno alla macchia per collaborare coi partigiani di Tito, il testo esalta l’opera dei collaborazionisti, e in particolare quella «del prefetto Vincenzo Serrentino, che riuscì a rintuzzare le ingerenze dei nazisti e dei croati». Sembra proprio una excusatio non petita, perché Serrentino, poi processato e fucilato come criminale di guerra, rappresenta il caso più vergognoso di onorificenza concessa dallo stato italiano a un presunto “martire delle foibe”. Il prefetto, peraltro condannato per crimini precedenti, sarebbe dunque da celebrare per aver “rintuzzato” i tedeschi, ovvero, si comprende, per aver mantenuto formalmente la città sotto amministrazione italiana pur se agli ordini dei nazisti. Come mi capita di dire sempre più spesso: se queste sono le benemerenze di Serrentino, anche Benito Mussolini avrebbe potuto essere celebrato come un martire, se solo fosse stato fucilato più a est...
Nel caso delle cifre, le contraddizioni e i giochi di equilibrismo paiono ancora più evidenti. Di fatto i numeri delle vittime delle violenze di quegli anni sono presentati in maniera così vaga e ambigua da consentire qualunque tipo di interpretazione. Significativo è il caso della quantificazione degli esuli. All’inizio del testo si fa giustamente notare come «le stime prodotte dai portatori della memoria delle vittime», cioè dalle associazioni, «differiscono da quelle degli studiosi indipendenti», senza però esplicitare quali siano quelle corrette. In seguito si parla giustamente di 300mila espatriati nell’arco di quasi vent’anni, mettendo così formalmente in dubbio la cifra-totem di 350mila sempre ribadita dalle enti memoriali.
Ma solo grazie a un grafico presente a molte pagine di distanza è possibile comprendere che gli italiani autoctoni (dunque non slavi e non immigrati in epoca fascista) sono solo una percentuale del totale e assommano a circa 188mila. Si tratta comunque di una cifra molto significativa, che andrebbe però messa a paragone con i circa 10 milioni di profughi tedeschi (tra cui quasi un milione di morti), anch’essi vittime delle sconfitta in guerra, che invece non vengono nominati. Il che sembra coerente con la scelta, già ricordata, di non proporre «paragoni incrociati tra fenomeni in contesti o di natura diversa». Verrebbe da chiedersi allora perché poco prima, nel descrivere le angherie subite dagli slavi in Alto Adriatico durante il fascismo si erano spese molte righe a compararle con quelle inflitte ai tedeschi in Cecoslovacchia o in Polonia negli stessi anni.
Punti di vista?
Al di là della presunta volontà di «riconoscimento delle memorie altrui, anche diverse dalle proprie, relative al medesimo territorio ed al medesimo periodo storico», nella ricostruzione proposta si privilegia dunque esclusivamente il punto di vista italiano. Al centro del quadro c’è l’italianità adriatica, la continuità bimillenaria della cultura latina, mentre quasi inesistenti sono i riferimenti alla storia sloveno-croata o alle motivazioni delle rivendicazioni jugoslave, altrettanto valide, in linea di principio, di quelle italiane.
Un approccio simile predomina anche nelle parti della circolare dedicate alle proposte didattiche e metodologiche. I ripetuti inviti ad affrontare il tema come caso studio e in forma interdisciplinare, gli apparati bibliografici, cartografici e sitografici possono essere senz’altro utili, così come l’invito a confrontarsi con «una pluralità di memorie», che «può essere il primo passo per il superamento dei pregiudizi e delle ottusità identitarie».
Tuttavia è significativo che l’elenco delle località di cui si consiglia la visita in eventuali viaggi di istruzione (Caporetto, Redipuglia, Sinagoga di Trieste, Risiera di San Sabba, Centro profughi di Padriciano, Foiba di Basovizza) non includa alcun riferimento al retaggio delle componenti identitarie non italiane (tranne gli ebrei), alle sofferenze subite delle popolazioni slave o alle violenze perpetrate dal fascismo, che rappresentano l’elemento storico predominante in termini di tempo, spazio e numero di vittime.
In linea con questo approccio ecco la frase che forse più di tutte riassume il senso dell’iniziativa ministeriale: «Se nell’ambito di un’unità didattica sulle Foibe la maggior parte del tempo è dedicata ai precedenti di violenza del fascismo di confine e delle truppe italiane in Jugoslavia, questa non va considerata come corretta contestualizzazione, bensì quale mera elusione». E più tardi si citano i pericoli del “negazionismo”, ovvero di chi «applica un metodo ipercritico» per smentire l’esistenza del fenomeno.
Fermo restando che, nella mia lunga esperienza, non ho mai conosciuto nessuno che neghi il dramma delle foibe (e che la stessa espressione “negazionismo delle foibe” è stata coniata per criminalizzare una visione storica degli eventi), sono convinto che dedicare il tempo necessario alla contestualizzazione degli eventi sia l’unico modo per «comprendere i motivi per i quali determinati equilibri nei rapporti tra le popolazioni entrano in crisi e si interrompono, perché ci sono ingiustizie, discriminazioni, negazione dei diritti di identità e di cittadinanza, repressioni, persecuzioni, violenze, esodi, espulsioni».
Si tratta certamente di un testo scritto da mani diverse, con prospettive interpretative e politiche che finiscono per suonare in contraddizione fra loro. Da una parte si invoca la contestualizzazione e la «purificazione della memoria, intesa come sofferta consapevolezza che la propria memoria dolente non può far da schermo alle colpe della propria storia»; dall’altra si invitano i docenti a rivolgersi agli esuli e ai loro rappresentanti per approfondire e celebrare, come già peraltro avviene da anni: «Sarà cura delle associazioni proponenti, in accordo con il Ministero dell’Istruzione, individuare le tematiche e stabilire gli appuntamenti per la formazione dei docenti con attività laboratoriali e di seminario».
Equilibrismo
Come giudicare questa operazione, quale sembra essere lo scopo e quale potrebbe essere l’effetto concreto, in un contesto politico nel frattempo mutato?
Da un punto di vista didattico non mi pare che queste linee guida possano sortire un qualche effetto significativo. Un testo così voluminoso, dettagliato e contraddittorio toglie il terreno sotto i piedi ai più ottusi propagandisti, ma lascia ampio spazio di manovra a chi intende contestualizzare e provare ad analizzare anche i punti di vista “altri”, come a chi predilige una visione unilaterale e nazionalista.
Un esempio di come un documento tanto ambiguo si possa prestare a una facile strumentalizzazione ci viene dal primo articolo di commento uscito su Il Giornale. Elogiando le linee guida, l’autore ripete più volte l’espressione “pulizia etnica”, un concetto molto problematico, rifiutato dagli storici e infatti mai nominato nel testo ministeriale. Ma proprio perché non viene nominato né smentito, esso può venire liberamente utilizzato, in ambito mediatico e anche naturalmente didattico, contribuendo a diffondere un’immagine errata del fenomeno.
L’effetto più significativo (e probabilmente anche l’obiettivo originario) di queste linee guida è sicuramente quello politico. Come si è detto si tratta di un’operazione di notevole sottigliezza, che ha lo scopo di mettere un limite alla strumentalizzazione. L’obiettivo non è smettere di usare politicamente questa vicenda, ma indicare il modo in cui essa deve essere utilizzata. E il messaggio è chiaro: evitare estremismi risibili e controproducenti (in merito alle cifre, ad esempio, o alla negazione del contesto storico), ma anche indicare chiaramente i colpevoli, ovvero la Resistenza e l’ideologia comunista. Questo messaggio di fondo risulta condivisibile da tutti i firmatari, siano essi moderati, conservatori o estremisti di destra.
Senza dubbio si tratta di un successo, forse temporaneo, della linea nazionalista moderata, il colpo di coda del governo “delle grandi intese”, prima del passaggio di consegne a chi ha molto più apertamente strumentalizzato questa vicenda storica. Il ministro dimissionario ha voluto così togliere al nuovo governo la possibilità di influire pesantemente sull’insegnamento di questa pagina di storia. Intendiamoci, nulla è perduto, ci saranno ancora pressioni sul mondo della scuola, e il 10 febbraio possiamo aspettarci una circolare ancora più insensata e antistorica di quella del 2022; ma per qualche anno la strada potrebbe essere segnata da queste linee guida. Si tratta di una fragile barriera, che consente un certo margine di autonomia ai docenti, ma anche di un’ulteriore occasione mancata.
Il testo infatti ribadisce una versione ufficiale totalmente italiana, con uno sguardo unilaterale e vittimista, pur nell’alveo di una ricostruzione storica che rammenta tutti i passaggi della vicenda, anche quelli meno gloriosi per l’Italia. Nella logica appunto delle “grandi intese” si è voluto accontentare l’associazionismo più estremista, confinando i riferimenti «al dialogo e al rispetto dello sguardo dell’altro» (prefazione del capo dipartimento Stefano Versari) alle roboanti dichiarazioni di principio. Possiamo solo sperare che qualcuno faccia buon uso di tali dichiarazioni, che esse non vengano del tutto disattese nell’applicazione pratica di queste linee guida.
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