- Il transito mite delle parole. Conversazioni e interviste 1974-2014, appena edito da Quodlibet a cura di Marco Belpoliti e Anna Stefi, raccoglie buona parte delle interviste di Gianni Celati
- Dentro al libro possiamo seguire il continuo variare e ritornare dei principali interessi dello scrittore. Centri di interesse che si incrociano e si riannodano continuamente, dando sempre luogo a nuove tappe di un lungo cammino
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Negli anni Ottanta Celati viene imbarcato da Luigi Ghirri e da altri fotografi nell’impresa di andare a cercare un nuovo paesaggio italiano. Così scopre la differenza tra prendere appunti sul momento, nel posto in cui sei, e scriverne a distanza
Il transito mite delle parole. Conversazioni e interviste 1974-2014, appena edito da Quodlibet a cura di Marco Belpoliti e Anna Stefi, raccoglie buona parte delle interviste di Gianni Celati. Dentro al libro, che è piuttosto corposo (644 pagine) possiamo seguire per quarant’anni il continuo variare e ritornare dei principali interessi dello scrittore: il linguaggio e il precoce interesse per la linguistica, l’arte del narrare e le sue differenti posture, la filosofia, il rapporto col mondo, il rapporto con la fotografia, il rapporto con il paesaggio, gli incontri fortunati, il mettersi a fare documentari e così via, la lista potrebbe essere lunghissima. Per di più tutti questi centri di interesse si incrociano e si riannodano continuamente, dando sempre luogo a nuove tappe di un lungo cammino. Riassumere tutti questi materiali è troppo difficile e le parole di Celati troppo belle. Proviamo quindi a fare degli esempi in cui mostrare alcuni di questi nuclei di interesse.
Il potere del linguaggio
Partiamo per esempio dall’antropologia e da quello che può mostrarci dell’effettiva potenza del linguaggio. In un’intervista con Rebecca West del 2007, Memoria su certe letture, Celati ricorda un saggio di Levi-Strauss, L’efficacité symbolique, dove si parla si un vecchio rituale usato dai Cuna nei casi di parti difficili. «Uno sciamano lo cantava, e le sue parole narravano una penetrazione negli organi genitali femminili come in un inferno mitologico, avendo l’effetto di sbloccare l’utero e permettere il parto. Mi colpiva il fatto che le parole potessero produrre simili effetti fisici, curativi». Quello che più colpiva Celati era che questa pratica sciamanica trasformasse, attraverso il canto, il linguaggio in un «campo affettivo, un campo di emozioni».
A quei tempi, negli anni Settanta, dice Celati, di “campo affettivo” e di emozioni non si parlava mai e anche in riferimento ai testi letterari si parlava piuttosto di “valore conoscitivo”. Invece nella visione del mondo dei Cuna, dove l’utero della partoriente si riempie di mostri che personificano i dolori del travaglio del parto, il canto dello sciamano fornisce alla partoriente un linguaggio per seguire le diverse fasi della sua esperienza. «Il fatto fisiologico diventava intellegibile attraverso proiezioni fantastiche, dunque affettive: cioè un campo di emozioni che aiutavano la partoriente a superare un blocco organico».
Levi-Strauss paragonava quei processi a quelli della poesia «definendoli una forma di "induzione” per trasformare le parole in effetti corporei. Il che mi portava a pensare che questo potesse essere il senso proprio del lavoro letterario: un uso delle parole per produrre effetti curativi che sbloccano qualcosa, nel corpo e nella mente»; ecco dunque una pratica della lettura e della scrittura come terapia e autoterapia.
Racconto e immaginazione
Sondiamo un’altra questione, completamente diversa, che ha molto interessato Celati: che cos’è una novella? Che cos’è un racconto? Un racconto è qualcosa che ti fa immaginare qualcosa, può essere «anche solo un barbaglio di visione». Celati cita per esempio la Divina commedia: in Dante «spuntano voci da tutte le parti, e certe volte una frase, due frasi, sono già racconti. Il racconto di Pia de’ Tolomei è lungo quattro versi. Un esempio più estremo si trova nel girone dei ladri, dove spunta questa voce: “Cianfa, dove fia rimaso?”. Letta nel suo contesto, quella frase è già un racconto».
Senza aver bisogno di creare un personaggio completamente caratterizzato, dato uno sfondo di voci e una certa circolazione di parole, un contesto di altre narrazioni, a volte basta soltanto una scintilla, un nome come Cianfa per costituire una grande fantasticazione. Un altro esempio Celati lo pesca dai Diari di Antonio Delfini: «“Se io sapessi scrivere dei racconti, dei veri racconti, cioè ordinati convincenti attraenti, mi sarebbe piacevole e facile parlare di Washington Caldini, di colui che andava sotto il nome dell’attacchino folle…”». Anche questo è già un racconto, e quel nome, Washington Caldini, detto l’attacchino folle, basta da solo a farti immaginare un personaggio. È un frammento legato a un modo di intonare le parole, … per intuire uno sfondo verso cui ci proietta».
Nel paesaggio e nel momento
Negli anni Ottanta Gianni Celati viene imbarcato da Luigi Ghirri e da altri fotografi nell’impresa di andare a cercare un nuovo paesaggio italiano. Da quell’impresa nascerà il libro Verso la foce. Qual era il problema che Celati va scoprendo mentre realizza questo lavoro? Celati cercava «dei fatti di ordine sensibile, visivo, percettivo; e poi il fatto primario, che gli aspetti di un luogo li cogliamo come apparizioni». Se uno non fa questa esperienza, di un luogo vede soltanto le sue presupposizioni, cioè che un luogo deve essere così e così, come già sappiamo che deve essere. «In questo non si viene mai all’esterno, si resta sempre intrigati nelle nostre interiorizzazioni».
Celati scopre la differenza tra prendere appunti sul momento, nel posto in cui sei, e poi scriverne a distanza. «Quando scrivi a distanza sei già nelle generalità dei discorsi, e tutto prende un aspetto di completezza nel pensiero». A distanza si fa avanti una teoria sulle cose che hai visto che riempie tutti i buchi, e sostituisce le interrogazioni con le risposte. Invece all’aperto è tutto diverso: «Scrivi la strada su cui vai, e quel che vedi nelle cunette o ai lati della strada, e le case di abitazione che vedi intorno, e il tipo di traffico che vedi, e il tipo di persone. Ti guardi attorno, vedi cosa c’è per terra, se asfalto o spazzatura o altro, poi guardi l’orizzonte e vedi che rapporto c’è tra l’orizzonte e quel pezzo di terra dove stai mettendo i piedi. Lì spunta il senso del limite, che è anche il senso delle visioni e delle apparizioni. Magari spunta solo nei gesti della gente che vedi, nell’apertura dello spazio, o nelle rughe di un vecchio».
Alcuni filosofi hanno rilanciato questo problema: Husserl voleva ritornare «alle cose stesse», cioè ritrovare un possibile «sguardo non determinato da categorizzazioni rigide», visto che l’abitabilità di un luogo non può dipendere da modelli scientifici, ma da elementi sensibili, percezioni e fatti visivi. «Tutta la varietà e l’eterogeneità delle cose viene cancellata attraverso certi nomi: New York, Parigi o Valle Padana. Quei nomi formano dei copioni, come uno sfondo tramandato nel deposito del sentito dire». Il problema è di riuscire a smontare l’apparato discorsivo intorno ai luoghi, per riuscire a vederli sul momento della loro apparizione.
Essere in relazione
Altra questione: che cosa siamo, ognuno di noi? Siamo tribù, come diceva Deleuze. E ci stendiamo continuamente in vari rivoli. «Non siamo mai esseri unitari. Siamo sparpagliati, contraddittori, sempre in balia di alti e bassi». Detto in altre parole l’uomo non è fatto tutto d’un pezzo. E il mondo quasi mai funziona secondo «alternative nette: sì/no, bene/male, vero/falso, io/gli altri». A questa immagine di individualismo oltranzista, e forse di oggettività rigida che lo rispecchia, bisogna sostituirne un’altra. Per esempio siamo esseri che vivono dentro una lingua dove «si parla sempre in due… ogni parlare nasce da una collaborazione … E le narrazione, come le conversazioni, ci fanno capire che noi siamo sempre esseri collettivi, e dunque in noi e negli altri il narrare e l’ascoltare sono intricati e presi in una collaborazione con gli altri, che continua anche se siamo nella massima solitudine».
Ma, come viventi e come animali, siamo sempre anche dentro un umore che ci porta di qua e di là: «Per concludere dirò questo: la cosa che apprezzo di più nei libri è l’allegria. L’allegria è un tipo d’esuberanza che può mescolarsi al dolore, alla disperazione, alla cupezza, anche al pensiero della morte … L’allegria è un moto espansivo che abolisce la grigia indifferenza del mondo, e pochi fenomeni mostrano in modo così evidente la tendenza dell’individuo umano a proiettarsi fuori di sé. In altre parole: l’allegria è un modo essenziale dell’andare fuori di sé, verso l’esteriorità di tutto ciò che non siamo: le cose, i sassi, gli alberi, le bestie, gli spiriti dell’aria e il buio che è dentro il nostro corpo».
Gianni Celati, Il transito mite delle parole. Conversazioni e interviste 1974-2014, a cura di Marco Belpoliti e Anna Stefi (Quodlibet 2022, pp. 648, euro 24)
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