Il ragazzo del secolo, o della rivoluzione perduta è l’esordio nella narrativa di Gino Castaldo, giornalista musicale: un romanzo sui desideri, le speranze e i dolori degli anni Sessanta. Neri Marcorè lo ha proposto per il Premio Strega 2025 con la seguente motivazione: «È un’opera che con gli strumenti della letteratura ha il merito di far rivivere un’epoca cruciale per l’Italia e il mondo intero»
«Ma davvero dici?»
«Sì, dài, proviamoci, andiamo in Marocco.» Mario insisteva convinto.
«E come ci andiamo in Marocco? In macchina non se ne parla, non ci arriviamo fin lì…»
«In autostop!»
L’impresa era dissennata, fortemente deplorata dalle famiglie terrorizzate, pertanto ancora più attraente.
Partimmo con enormi zaini pieni di vettovaglie e una piccola tenda canadese con la pretesa che qualcuno ci prendesse a bordo e ci portasse lungo tutta la costa del Sud dell’Europa, fino alle soglie del continente africano, cosa che di fatto avvenne, lasciati all’imbocco della strada dai padri, per i quali allora il Marocco significava ben poco, se non un luogo sconosciuto e pericoloso che richiamava alla memoria i soldati marocchini inquadrati tra le forze di liberazione alleate che si lasciarono andare a inaudite violenze sessuali sulla popolazione femminile che in teoria stavano liberando dall’oppressione nazifascista.
L’Aurelia, vista sulla carta, era l’inizio di un sentiero unico che ci avrebbe portati in Marocco, ma passarono ore prima che qualcuno si impietosisse e ci prendesse su.
«Stronzi borghesi di merda!» protestava Mario, «ma non lo vedono che siamo qui ad aspettare, perché non si fermano?»
La verità è che eravamo vistosi e ingombranti, ci accampavamo ai bordi delle strade con la tenda, finché a fatica, cedendo a qualche tratto di pullman, non arrivammo a Gibilterra, la stazione che segnava le colonne d’Ercole.
Attraversammo il mare e in poche miglia saltammo di continente. Il Marocco era un altro mondo, semplicemente. Odorava diversamente, il cielo sembrava differente, la vita rallentava, camminava su rozzi carretti, asini e cammelli, era un tuffo in un tempo antico scollegato da tutto quello a cui eravamo abituati.
Al Marocco e ritorno
Viaggiammo a lungo inebriati da questa diversità, i banchi di cibo, i mercati, le stoffe sgargianti, a Tangeri i ragazzi passeggiavano protervi mano nella mano, le donne schive, riservate, nascoste, i vecchi in circolo a fumare pipette di kief a grumetti che una volta bruciati venivano sputati. Il conforto, in quella terra sconosciuta, era incrociare gli sguardi di altri ragazzi europei come noi venuti alla scoperta, tutti con la stessa voglia di sentirsi esploratori in erba di nuovi mondi, e il più strambo di tutti era Pierre: facemmo amicizia su un vecchio bus che da Casablanca ci portava a sud, verso il deserto. Era diverso dagli altri viaggiatori alternativi, allampanato, vestito con camicia e pantaloni di lino, elegante e goffo, un francese d’altri tempi, educato e decadente, poco più grande di noi, che invece avevamo cominciato a vestirci come i marocchini, sandali e gellaba lunga fino ai piedi. Ci prese in simpatia, aveva qualche soldo in più di noi, arrivati a Marrakech ci portò a mangiare in un posto che gli avevano consigliato, si divertì molto a vedere quanto eravamo affamati. Mi venne da pensare che fosse omosessuale, ma non ci furono mai segnali espliciti. Anche in questo era molto riservato.
Al ritorno avevamo finito il poco denaro che ci eravamo portati. Tornammo a Gibilterra con la speranza di raggranellare qualche spicciolo negli ospedali spagnoli, girava voce che pagassero le donazioni di sangue e offrissero un lauto pasto. Ci precipitammo al primo che trovammo e scoprimmo che la notizia era vera. Pagavano, anche benino, bastava non dire che venivamo dal Marocco, ma l’infermiera, gentile e cinica, ci infilò l’ago nella vena comprendendo al volo la nostra sprovvedutezza e ci tolse una quantità enorme di sangue, una dose doppia rispetto a quella che si usava nelle donazioni, e invece del lauto pasto ci offrirono un bicchiere di latte ben zuccherato, ce ne andammo traballanti e indeboliti ma con quei soldi ci comprammo del cibo e un biglietto ferroviario che ci riportò stremati in Italia.
Rientrando a casa con la borsa che ancora odorava di Marocco, trovai un pacchetto di amorose lettere di Michela che venivano dalla costa ligure. Era in barca con gli zii, talmente più aperti dei suoi tradizionalisti genitori che mi avrebbero ospitato volentieri, senza limiti e restrizioni.
“Amore, ho messo da parte dei soldi, non devi preoccuparti di nulla, vieni appena puoi” scriveva.
Ero nato a pochi metri dal mare, ma non ero mai stato su una barca.
La Liguria
Il buio mi colse sui tornanti del passo del Bracco, di nuovo sulla via Aurelia, con la due cavalli che si imbarcava a destra e a manca, seguendo le onde della strada con le sospensioni che sferragliavano allegre e ansanti, in mezzo a camion enormi che tagliavano le curve fottendosene, perché i camionisti vogliono essere i padroni della strada, poi finalmente, dopo salite e ripide curve, vidi le luci della Liguria, la lunga scesa verso il mare, la litoranea e, come un miraggio, il cartello di Sestri Levante. Abbandonai la due cavalli vicino al porto e zaino in spalla andai a cercare la barca dove mi aspettavano Michela e i suoi zii. Partimmo subito, di sera, col mare nero che si specchiava nel cielo scuro e le piccole creste bianche che parevano riflessi di stelle, e non mi sembrava vero, ero ancora in corsa, abbracciato a Michela a prendere schizzi di acqua salata nella notte.
«Sarà sempre così?» mi chiese, con i suoi occhi sgranati e imploranti.
«Non lo so, forse no, ma noi ce la metteremo tutta.»
Arrivammo in Costa Azzurra, che per noi ragazzi malati di leggenda e letteratura significava Scott e Zelda Fitzgerald, Picasso, Cocteau. Attraccammo a Saint-Tropez. Lavati, con le magliette più carine e pulite che avevamo, scendemmo a terra. Le stradine sembravano in festa, tutto sapeva di meraviglia, bistrot rigogliosi, offerte di cibo, bar pieni di gente. Ci rendemmo conto che in mezzo al brusio di fondo si sentiva in lontananza un suono di sitar che attraversava l’aria, ci guardammo increduli, sembrava un richiamo d’Oriente, e cominciammo a seguirlo, come se un pifferaio ci avesse stregato e convinto a seguirlo ovunque. Sbucammo in una piazzetta con un piccolo palco e scoprimmo che a suonare il magico sitar era Ravi Shankar, già una specie di divinità, ed era lì, a colorare di India le vie di Saint-Tropez.
Quella notte in barca facemmo l’amore imbevuti di spiritualità, come se quell’uomo ci avesse spiegato che tra le due cose non c’era conflitto, anzi, si poteva cercare il piacere sognando un’energia divina.
Era strano convivere con quegli zii libertari, ci sentivamo per la prima volta autonomi, grandi, facevamo l’amore quando volevamo, a loro non importava, e l’amore cominciò a entrarmi sottopelle, il desiderio si stava trasformando in un bisogno di completamento che non avevo mai provato. Michela scriveva sul suo diario e mi guardava sorridendo, il sale sulla pelle era il nostro sapore preferito.
Tornammo a Roma con le nostre valigie e gli zaini, e mentre la accompagnavo a casa Michela mi chiese a bruciapelo: «Senti, però io a questo punto non capisco, stiamo insieme o no? Siamo fidanzati?».
Era una domanda che avevo sempre eluso ma era vero che dovevamo cominciare a chiedercelo.
La nostra attenzione fu però catturata da un manifesto beige affisso al muro con un simbolo grafico che non conoscevamo e la scritta: rivolta femminile. Michela sgranò gli occhi. Era diviso per punti e diceva:
La donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà.
L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna.
La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli.
Identificare la donna all’uomo significa annullare l’ultima via di liberazione.
Liberarsi, per la donna, non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell’esistenza.
La donna come soggetto non rifiuta l’uomo come soggetto, ma lo rifiuta come ruolo assoluto.
Faceva effetto, come se i muri cominciassero a parlare.
Nei giorni seguenti scoprimmo che erano stati affissi ovunque a Roma, ma anche a Milano. Michela era elettrizzata, piano piano avrebbe cominciato a rendersi conto che c’erano altre donne come lei che volevano un destino diverso e riscrivere la Storia.
Quel giorno ci separammo come sempre, tornavamo dai nostri genitori, dovevamo vivere parti di vita tutte nostre, c’erano gli amici, i fratelli, i compagni, bisognava sentire, metabolizzare, condividere, raccontarsi tutto…
Eravamo fidanzati, sì, forse, ma i tempi chiedevano nuove definizioni.
da Il ragazzo del secolo. O della rivoluzione perduta, HarperCollins, 2025
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