Il suo successo all’ultimo Sanremo ci racconta tanto del mondo del giornalismo musicale e del marketing attorno agli artisti, ma ci permette anche di indagare la poetica di un artista che ha sempre avuto chiaro che al centro di tutto, prima del successo, c’è l’amore per la musica
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Quando Lucio Corsi e io ci siamo incontrati, ormai dodici anni fa, una cosa mi è stata immediatamente evidente: avevo davanti un ragazzino di nemmeno vent’anni con le idee molto chiare che già da anni scriveva canzoni.
Avere le idee chiare, quando si parla di fare arte, non significa naturalmente sapere esattamente dove si sta andando, ma avere definita in mente una postura, un modo in cui si desidera il procedere di quell’andare, il passo, la tensione e, specialmente, il perché a monte di quel passo e del proprio restare a contatto con una strada, un percorso. Incontrare artisti giovani (ma non solo) mossi apertamente da un desiderio, da una spinta feroce e da una fame sconfinata del fare, sarò sincera, è cosa sempre più rara, più facile imbattersi nella speranza di avere successo il prima possibile e, a cose fallite, sottrarsi il prima possibile dalla gavetta.
Quando Paolo Conte – per Lucio Corsi un artista di riferimento – parla del gusto per l’artigianato si riferisce proprio a questo, al piacere del restare sulla materia, di studiarla, plasmarla, lavorarla a volte fino allo sfinimento, in nome del preciso godimento che sta nel compimento di queste azioni: l’amore per il fare, non l’autocompiacimento dell’aver fatto o del fare della propria opera un elemento comunicativo, pubblicitario, ciecamente mediatico; penso alla poeta Patrizia Cavalli, quando affermava il proprio gusto di scrivere, diverso e avulso da quello, in lei assente, per il comunicare.
Dieci anni di scrittura
Fin dai suoi esordi, una raccolta di due ep, Altalena Boy/Vetulonia Dakar, prodotta da Federico Dragogna dei Ministri, e prima ancora un periodo a suonare ovunque, nei piccoli locali come per strada, Lucio Corsi ha incarnato questo piacere artigianale del restare a contatto con l’elemento, con il proprio campo d’azione artistica, un piacere incentrato più strutturalmente che precocemente sullo studio, sulla ricerca, sul lavoro sul suono e sulla parola cesellata.
Fin da quella fase, ha dimostrato un ampio bagaglio onirico e immaginifico personalissimo a cui attingere, un parco di strumenti emotivi e artistici in grado di tenerlo in contatto con un talento, il proprio, lontano dalla media e di foggiare una scrittura nuova, tutta sua, certo inclusiva di una molteplicità di livelli e mondi artistici di riferimento che da lì in poi sarebbero esplosi o fioriti lentamente nei suoi album, ma in grado di mostrare pienamente fin dagli esordi una considerevole capacità di distacco da ogni altra cosa già fatta in passato. Di Lucio Corsi è insomma la qualità di non assomigliare troppo ad altri, di mancare in pieno le etichette utili alle catalogazioni e ai processi di inserimento nel piano, appunto, comunicativo e pubblicitario che il music business domanda sempre più a gran voce per permetterti di esistere come artista.
La vittoria di Lucio Corsi a Sanremo (che non si misura con un secondo posto nella classifica del Festival, ma con un disco d’oro appena guadagnato e una risonanza mediatica improvvisa di proporzioni abnormi che confina con l’inquietante) arriva dopo quei due ep, tre album in studio e dieci anni tondi di pubblicazioni e qualche anno in più di tour con un pubblico in crescita costante, cui si aggiungono pure, per chi necessitasse, due più recenti esibizioni televisive: la prima nel programma L’Assedio di Daria Bignardi nel 2020 e l’ultima nella seconda stagione di Vita da Carlo di Carlo Verdone nel 2024.
Questi dieci anni, Corsi li ha trascorsi a fare nient’altro che dischi, nient’altro che canzoni scritte per entrare in quei dischi o restarne abilmente fuori, il tutto rifuggendo ogni proposta che non fosse votata esclusivamente al desiderio di comporre musica e, più che comunicare sé stesso attraverso i social e i media, scegliere di comunicare la propria musica partendo sempre da lei, dalla sua stessa grana estetica di multiappartenenza; studiare come componeva Ivan Graziani, dunque, per Corsi non è poi molto diverso dall’analizzare i rapporti tra Peter Gabriel e lo studio Hipgnosis per capire come ragionare sul corpo dei propri album, o soffermarsi su come il glam rock abbia avuto origine da estrazioni sociali umili fornendo ad artisti come Marc Bolan o David Bowie – anche loro, naturalmente, nel rooster dei suoi amori artistici – la possibilità di scegliere di inventarsi mondi altri, sgargianti, alternative luccicanti a un mondo grigio iper reale.
La poetica
Alla base della poetica di Corsi, infatti, ci sono da sempre due elementi fuori moda e distantissimi dalle grazie di un’industria musicale che cerca di unire le forze di sedicenti autori in «campi di scrittura» spingendoli a costruire qualcosa – tanto una visione creativa quanto il prodotto finito, cioè la possibile, agognatissima hit – che invece dovrebbe semmai nascere spontaneamente, ma che, evidentemente, fatica a venire alla luce; da un lato Lucio Corsi fa musica a partire da un’innata curiosità, una fame di ascolti sconfinati, interazioni ideali col passato, proiezioni al futuro tanto nella scrittura dei testi che nell’ideazione musicale e visiva insieme all’amico e sodale Tommaso Ottomano (con lui anche sul palco a Sanremo), dall’altro è un adepto dell’invenzione, lui stesso in questi quindici anni di lavoro non ha mai smesso di ribadirlo: la musica serve a inventare mondi, serve a sognare e plasmare l’altro da sé e dal mondo che abitiamo, a non essere in un solo posto, a pensare che non esista solo questa piccola possibilità di vita visibile in cui conduciamo le nostre giornate.
E allora, chiaramente, più che indugiare in stupidi nomignoli che vanno forti nelle ultime settimane – da «folletto» in giù – si dovrebbe ragionare su quante lezioni Corsi abbia davvero fatto proprie, usando quanto compreso in profondità, nei tessuti cioè del proprio essere artista, attraverso la curiosità, l’indagine e un intenso uso della fantasia, e rendersi conto da quanto tempo mancasse in Italia, sui grandi palchi, una simile visione autonoma, figlia delle lezioni imparate davvero nel praticare la canzone, la scrittura, il fare musica ben al di là del tipo di risultato artistico.
Ridicolo è allora pensare che quella di Corsi sia la vittoria del cantautorato, questo successo non racconta che i cantautori vincono sulla trap o che in realtà ci manca tanto Francesco Guccini, ma ci mostra quanto manchi un certo modus operandi, l’unico che per decenni i musicisti hanno usato per fare musica.
L’esplosione di Lucio Corsi mostra che quando sui grandi palchi sale un talento vero, cioè non ideato da una major usando gli strumenti dell’economia al posto di quelli dell’arte, qualcuno che, anziché sedersi senza esperienze al tavolo del potere e circondarsi di shooting, fotografi, stylist e coccole social, ha da sempre scelto di sedersi al pianoforte e suonare dal vivo ovunque potesse, quel talento colpisce tutti, non risparmia neppure i distratti, chi curioso quotidianamente non è stato mai, chi ha visto passare ma non si è fermato prima perché ancora non aveva davanti il «folletto» con un milione di follower su Instagram.
Il futuro
Non dimentichiamo però che quella di queste ultime settimane è anche una storia di trascuratezza o persino grande negligenza nella visione, non tanto quella dei telespettatori di uno show televisivo travestito da spazio per la musica, ma quella di giornalisti da prima serata e grandi testate, di addetti ai lavori, di colleghi dello stesso Corsi.
Possibile che Sanremo sia l’unico spazio che spinga costoro a portare attenzione e sguardo accurato su qualcosa di tanto evidentemente significativo dal punto di vista artistico? Possibile che solo il carro del vincitore abbia concesso lo spazio per salire a bordo quando una navicella spaziale spaziosa era pronta da un pezzo? Possibile che chi dovrebbe arrivare prima, fare ricerca, lavorare per mostrare a tutti ciò che vale la pena conoscere, in quindici anni se ne sia stato più o meno a nicchiare?
Per Lucio Corsi il meglio deve ancora venire, perché è sui palchi, live, in tour che la sua cifra ora famosa trova espressione completa e affinata, ma su queste assenze sì, vale davvero la pena ragionare, in un paese dove gli spazi per la musica fatta come la concepiscono Corsi e ogni musicista del reale e non del reality sono sempre meno e dove l’unica risorsa per affermarsi sembra essere il timbro di qualità della tv di Mara Venier.
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