«Crederci sempre, arrendersi mai» era il motto con cui Simona Ventura scandiva i tempi della sua Isola dei Famosi, quando il programma durava meno di due mesi, andava in onda su Rai 2 e durante la finale totalizzava il 42% di share, con oltre dieci milioni di telespettatori. Quella frase di Super Simo, col senno di poi, sembra un monito scalfito nella pietra del reality show, il genere televisivo che vent’anni fa ha invaso i nostri palinsesti fagocitando ogni brandello di intrattenimento e che oggi arranca, perde pezzi, cade sotto le pressioni dell’austerity.

Forse non è ancora arrivato il momento di smettere di crederci, ma la resa sembra ormai dietro l’angolo, in un universo mediatico in cui fare massa, in termini di ascolti, è sempre più complesso. Cos’è successo al reality? È solo una questione di naturale invecchiamento o è il pubblico che si è stancato? Sono i tempi che cambiano, le mode che passano e le mamme che imbiancano o è finito un genere televisivo?

Chi resiste

A domande difficili non si possono dare risposte semplici. Sarebbe comodo dire solo «ci siamo stancati», perché altri programmi, molto simili per forma e contenuto al reality, restano in piedi sulle loro gambe senza mostrare acciacchi: è il caso dei format di Maria De Filippi, Temptation Island in testa, che seppur rientri nella categoria del dating show, ha molto anche del primissimo GF, quello della gente semplice, dei ragazzi e delle ragazze delle porte accanto, divi per caso con una telecamera piantata sulla testa h24. Quello del reality, infatti, è un processo di deterioramento che coinvolge tanti aspetti dell’intrattenimento contemporaneo, della percezione che abbiamo nei confronti dei personaggi famosi e della fama in sé, oltre che del mezzo. Quando nel 2004 assistevamo rapiti alle risse tra Aida Yespica e Antonella Elia che si tiravano in capelli mentre Carmen Di Pietro provava a fermarle, o nel 2008 ai battibecchi tra Vladimir Luxuria e Belen Rodriguez, c’era sì un discorso di offerta molto più ristretta rispetto a ciò a cui possiamo accedere oggi, ma anche un livello di democrazia della celebrità meno diffusa.

Ed è la ragione per cui, se confrontiamo il cast del 2004 con il cast del 2024, oltre a qualche nome trasversale del calibro di Joe Bastianich e oltre al cambio di rete, col passaggio a Mediaset, il pensiero diffuso è quello che si traduce nella domanda: «ma questi chi sono?». In realtà, sebbene alcuni concorrenti siano in effetti micro-celebrità, il mondo dei Famosi oggi è fatto proprio di questo, di bolle, di persone che hanno un milione di follower su Instagram e zero copertine della Settimana Enigmistica, è la disintermediazione della popolarità. Ciò che per me è famosissimo – una tizia che mette le cover sugli iPhone, per esempio – per la mia vicina di posto sul tram è un perfetto sconosciuto. Come fai a creare un cast di livello quando i budget sono dimezzati, i famosi decuplicati e gli ascolti, come nel caso dell’ultima sfortunata Isola, crollati a un milione e mezzo di teste?

La conservazione

E qui, si apre la parentesi Talpa, sottotitolo «who is the mole». Il caso del format ripescato dall’archivio Mediaset dopo anni di annunci e smentite è interessante, perché tradisce un altro problema della televisione contemporanea, che punta tutto sulla conservazione, terrorizzata dal flop e messa spalle al muro dagli inserzionisti. La versione contemporanea non ha sfoggiato il set esotico, né prove al limite con la dichiarazione universale dei diritti umani – come mangiare topi arrostiti o occhi di bue, non i biscotti ma organi bovini – ma una versione ridimensionata e ritmata dall’esordio in prima serata su Canale 5 di Diletta Leotta.

Leotta che, munita di microfono a gelato e freddezza da generale, ha diretto con una invidiabile dose di cinismo e distacco un cast per nulla debole, basti pensare al delizioso clima di catfight tra Marina La Rosa e Lucilla Agosti o alle sfuriate della maestra di Amici Veronica Peparini.

Insomma, La Talpa, seppur con uno splendore ridimensionato delle edizioni peregoniane – l’altra domanda sarebbe, siamo davvero così sicuri che nel 2006 fosse un format così forte o lo guardavamo perché non avevamo scelta? –, c’era; era il pubblico che mancava. E quando non c’è il pubblico, si taglia tutto, si accorpa, si elimina, si dimentica in fretta. Proprio nelle situazioni in cui, al contrario, bisognerebbe dare il tempo a un programma di riposizionarsi nella mente e nel cuore di quei quattro gatti rimasti con il telecomando in mano, si chiudono i battenti in anticipo.

Il Grande Fratello 

Eppure, poteva essere proprio La Talpa a trasformarsi in La Toppa, quella che andrebbe sul Grande Fratello, arrivato stremato al suo venticinquesimo anno di messa in onda. Mentre i concorrenti delle precedenti edizioni diventano protagonisti di casi di cronaca – il caso di presunta violenza domestica tra Alessandro Basciano e Sophie Codegoni, quello di stalking tra Lulù Selassiè e Manuel Bortuzzo, due coppie nate al GF Vip 6 –, gli ascolti calano progressivamente di edizione in edizione, lasciando Alfonso Signorini solo con il ricordo del suo glorioso GF VIP 5, trasmesso durante il lockdown, stagione vinta da Tommaso Zorzi che segna, probabilmente, l’ultimo colpo di coda del format.

Perché in effetti, negli ultimi due anni, dopo la sfuriata del padrone di casa, Pier Silvio Berlusconi, che fu addirittura chiamato in causa dalla mamma di una concorrente, Antonella Fiordalisi, con una lettera strappalacrime in cui gli chiedeva di tutelare la povera figliola bistrattata, non solo il suffisso VIP è stato rimosso, ma anche qualsiasi legame col passato.

Gli eccessi

Basta parolacce – e sul tema «parolacce», unico vero parametro di buongusto, Signorini insiste a ogni puntata –, basta volgarità, basta eccessi, basta divertimento, insomma. Tutto ciò che del GF poteva risultare accattivante, ciò che è rimasto nella storia del programma soprattutto nella sua versione narrata dalla Gialappa’s, che tra una suite di Patrick e una gaffe dell’Ottusangolo costruiva il canone comico pop degli anni Zero, si è molto ridimensionato, lasciando spazio principalmente al racconto delle storie d’amore, o le ship, come le chiamano nei vari gruppi d’ascolto (detti anche fandom) su internet. E se già, col passare delle prime edizioni, passata la sbornia di popolarità generalista che inondava i concorrenti, si intravedeva la perdita dell’innocenza in chi arrivava al programma allenato per diventare un personaggio dello showbiz, ora i concorrenti sembrano aver studiato tutti in qualche accademia sudamericana di soap opera.

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Noi e gli inciuci

E dunque, in un’ultima analisi, la domanda finale dovremmo farla a noi stessi. Ci siamo stancati degli inciuci, di farci gli affari degli altri, di vedere gente che con spontaneità e realismo litiga a favore di camera? La risposta, chiaramente, è no, altrimenti non avremmo avuto il boom del caso Lucarelli contro Bruganelli, o non staremmo qua a fare il toto-litigio alla prossima edizione di Sanremo, impazienti di vedere il dietro le quinte in cui, ne siamo certi, Tony Effe e Fedez arriveranno alla resa dei conti (come direbbero gli anglosassoni, pun not intended). Credere che la crisi di un certo tipo di programma televisivo equivalga a un miglioramento da parte del pubblico e delle sue esigenze è tanto ingenuo quanto dare per vere tutte le dichiarazioni in confessionale dei vipponi di Signorini.

Il reality non è morto, si è solo spostato altrove, soprattutto in quelle situazioni di formalità in cui l'insorgere di imprevisti e di scontri risulta ancora più attraente proprio perché in contrasto con la cornice. Cos’è il fuorionda di Giambruno, con annessi sequel rimbalzati tra giornali e salotti televisivi, se non un reality che poi diventa confessionale sulle poltrone del vecchio amico Del Debbio, in cui l’ex first gentleman, avvolto dai suoi bracciali, sbarbato e contrito, un anno dopo il fattaccio di Cologno Monzese racconta di quanto non si riconosca in quel Giambruno del blu estoril e di quante gliene hanno fatte a sinistra per quella bravata – dimenticandosi che a sganciare la bomba era stato un fuoco amico, perlomeno televisivamente. Se tutto è reality, forse niente è più reality, e allargandone i confini le risorse si disperdono. Crederci sempre, arrendersi mai, diceva Super Simo, anche se a volte, per continuare a crederci serve cambiare qualcosa.

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