Chi continua a pensare che l’anno scorso a Venezia il Caleb Landry Jones di Dogman sia stato scippato di una Coppa Volpi semplicemente dovuta, non potrà perdersi Harvest di Athina Rachel Tsangari, discepola di Yorgos Lanthimos. Il film è un de profundis su un mondo che tramonta girato con una grana evidentissima che esalta la meticolosa ricostruzione della manualità dell’epoca
Chi come me continua a pensare che l’anno scorso a Venezia il Caleb Landry Jones di Dogman sia stato scippato di una Coppa Volpi semplicemente dovuta non potrà perdersi Harvest di Athina Rachel Tsangari, che dal concorso veneziano arriverà in sala con I Wonder Pictures. Tsangari è una creatura di Yorgos Lanthimos, ha lavorato con lui come attrice e co-produttrice e porta in concorso a distanza di quattordici anni dal suo Attenberg (Coppa Volpi all’attrice Ariane Labed) uno stranissimo apologo sugli albori delle enclosures, che trasformarono le terre inglesi coltivate dal popolo in accordo coi proprietari terrieri e le aree di libera pastorizia nei prodromi dello sfruttamento capitalistico a venire. Tanto per cambiare, in un programma che attinge la maggioranza dei titoli dalla pagina scritta, anche questo film è tratto dal romanzo omonimo di Jim Crace, inedito in Italia.
Harvest significa raccolto, e nel ‘500 scozzese del film Walt (Caleb Landry Jones) vive in totale sintonia con la terra, i suoi prodotti e le sue creature. È un diverso: non è nato in queste lande, è «un visitatore che si è fermato». A differenza dei suoi compagni di lavoro è istruito, sa leggere, scrivere e far di conto perché sua madre era la balia del proprietario, padron Kent, che è suo amico fraterno. La ricostruzione dell’economia rurale del tempo è insieme filologica e fantasiosa: restituisce tecniche arcane e immaginarie maschere di festa, sarabande che celebrano la mietitura e si trasformano in rituali birrosi.
È un’enclave contadina lontana dalle autorità e dalle sanzioni di legge: anche i misfatti dei piromani, che finirebbero sulla forca se denunciati, sono coperti da omertà e tolleranza. La spigolatura va tutta a profitto di chi lavora la terra, nutre in ordine decrescente persone, mucche, oche e maiali. I mendicanti invasori finiscono alla gogna, molto più ecologica delle celle di un carcere. Le streghe si puniscono con la tosatura, come le capre, e i paesani giocano crudelmente con le ciocche strappate.
Un mondo che tramonta
Arriverà però dalla città un nuovo padrone, erede legittimo delle terre, col suo seguito di scagnozzi neri e impettiti come becchini: un’autentica, minacciosa posse stile western. È l’antenato del capitalista moderno, determinato a trasformare una comunità di uomini liberi in braccianti salariati, recintando i terreni e convertendo «quello che era un villaggio dell’Abbastanza in un insediamento dell’Abbondanza». S’intende a esclusivo profitto del proprietario.
È un de profundis su un mondo che tramonta e sull’avvento della rivoluzione industriale, girato in 16 mm, cioè con una grana evidentissima che esalta la meticolosa ricostruzione, soprattutto, della manualità dell’epoca. Impari anche come si raschiavano le pelli per ricavarne le pergamene.
Con gli invasori – legittimi – si scatenano violenze e soprusi. E il rancore dei contadini – col beneplacito dei nuovi poteri, ben felici di trovare un capro espiatorio – finirà per colpire il cartografo straniero, per sua disgrazia di pelle scura, che è l’apripista a tariffa del nuovo business.
Tutto si svolge, simbolicamente, nel corso di sette giorni cruciali, conclusi dall’esodo dei contadini senza futuro con le loro povere masserizie. Di questo trapasso Walt, ecologista ante litteram, è il cronista lucido e insieme impotente.
Nel villaggio fantasma resterà solo lui, a picchiare il capo sulla pietra che segna il confine, come nel rito arcano, ma fedelmente tramandato di generazione in generazione, che insegnava ai bambini chi erano e da dove venivano. Qualcuno la chiamerebbe, oggi, resistenza.
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