Il rapper calabrese ha preso parte alle operazioni di salvataggio a bordo della nave di Sos Mediterranee. Dopo aver portato in salvo 48 persone, «giovanissime, quasi surreali nella loro calma. Avevano già accettato l’idea della morte, rassegnati a un destino che sembrava ormai inevitabile», si è esibito a bordo. «Abbiamo cantato, ballato, gridato, pianto e riso»
È la prima volta, almeno per quanto riguarda l’Italia, che la Ocean Viking ospita qualcuno che fa musica. Ho sentito forte questa responsabilità, quella di portare suoni e parole alle persone che la nave di Sos Mediterranee avrebbe salvato in mezzo al Mediterraneo. Dall’altro lato, ci tenevo anche a non essere un peso per la squadra di soccorritori, e ho cercato da subito di fare la mia parte. L’offerta di dare una mano è stata immediatamente accettata, e sono stato aggregato all’equipaggio dei gommoni d’intercetto, i mezzi velocissimi che, staccandosi dalla nave madre, materialmente vanno a incontrare i barchini in difficoltà e si occupano delle primissime fasi di salvataggio.
26 novembre. Eravamo entrati da poco nella zona search and rescue, quella fascia di mare in cui ogni avvistamento può segnare il confine tra la speranza e la tragedia. Dall’orizzonte è emerso un puntino, quasi impercettibile tra le onde. Avvicinandoci, abbiamo riconosciuto una barchetta di vetroresina, piccola, fragile, completamente vuota e alla deriva. Nessuna traccia di vernice spray per indicare che fosse stata segnalata. È un brutto segno, un presagio che parla di vite strappate: significa che chi era a bordo potrebbe essere stato catturato dalla guardia costiera libica, oppure, in un destino ancora più amaro, non ce l’ha fatta.
Non abbiamo avuto tempo di elaborare il vuoto di quella barchetta perché, pochi minuti dopo, è stata captata una segnalazione. Proveniva da un aereo della Nato: un barchino con una quarantina di persone a bordo era in condizioni critiche. L’atmosfera sulla Ocean Viking è cambiata all’istante, diventando densa, irreale. Il silenzio si è fatto profondo, interrotto solo dal frenetico movimento della squadra. Io, pronto a prendere posto sul gommone, ho indossato rapidamente l’equipaggiamento impermeabile, sentendo il peso della tensione su ogni gesto. Il resto della squadra ha fatto lo stesso, ognuno al proprio posto, ognuno consapevole della delicatezza di quel momento.
I gommoni sono scesi in acqua con un ritmo che sembrava sfidare il tempo e la gravità, sfrecciando sulle onde come fossero sospesi. Il barchino è apparso all’orizzonte e, mano a mano che ci avvicinavamo, è stato evidente quanto fosse in pericolo: sembrava sul punto di spezzarsi, sommerso a metà dalle onde. A bordo c’erano 48 ragazzi, giovanissimi, quasi surreali nella loro calma. Solo più tardi, parlando con uno di loro, ho compreso quella quiete: mi ha raccontato che avevano già accettato l’idea della morte, rassegnati a un destino che sembrava ormai inevitabile.
Il salvataggio procedeva con ordine, ma la tensione è esplosa quando all’orizzonte è apparsa la guardia costiera libica. La motovedetta, con il numero 660 ben visibile, era la famigerata Ubari, nota per la sua brutalità. Era la stessa imbarcazione che in passato aveva aperto il fuoco su mezzi civili, ferendo persino un pescatore siciliano. Quella motovedetta è uno dei mezzi forniti dall’Italia, un simbolo degli accordi controversi tra i due paesi, e la sua presenza non lasciava spazio a dubbi: dovevamo agire in fretta.
Il salvataggio si è trasformato in una corsa contro il tempo. Il primo gommone ha caricato un gruppo di sopravvissuti e li ha portati in sicurezza sulla Viking. Il secondo ha completato il lavoro. Io ero sul terzo gommone, che a quel punto si è mosso effettuando una manovra diversiva per attirare l’attenzione dei libici. Per un solo momento, abbiamo giocato al gatto e al topo, riuscendo a confonderli quanto bastava per completare l’operazione. Quando hanno capito che il nostro gommone era vuoto, si sono fermati, concedendoci il tempo necessario per portare in salvo tutti.
A bordo della Viking l’atmosfera era completamente diversa rispetto a poche ore prima. Il personale della Croce Rossa si è subito preso cura dei ragazzi, che erano esausti, infreddoliti, spaventati, ma fortunatamente senza gravi ferite o problemi di salute. Io, nel frattempo, mi sono tolto l’equipaggiamento, pesante non solo per il materiale ma per l’angoscia accumulata. Una doccia calda mi ha aiutato a sciogliermi fisicamente, ma non certo a livello emotivo.
La sera prima dello sbarco (e cioè ieri sera, nel momento in cui sto scrivendo) ho tenuto, finalmente, il mio concerto sulla Ocean Viking e, tra oltre mille in carriera, posso dirvi di sicuro che è stato il più intenso e incredibile. Abbiamo cantato, ballato, gridato, pianto e riso. All’alba di stamattina i ragazzi sono scesi, accolti da un imponente schieramento di forze dell’ordine e divise varie. Per il loro bene, spero che non si illudano che il loro calvario sia finito nel momento in cui una mano si è sporta dal gommone d’intercetto e li ha tirati via dalla morte.
© Riproduzione riservata